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Grottammare, Ana: “Vi racconto il mio lavoro in carcere tra problemi e obiettivi”

 

GROTTAMMARE – Sono una mediatrice culturale e ho praticato la mia professione in mezzo agli stranieri, in ambiti come: scuole, presidi sanitari, Tribunali, Prefetture. Ho gestito sportelli informativi, fatto consulenze per i vari comuni e ho collaborato ad un progetto sulla prevenzione della salute degli stranieri con la Regione Marche, ma dal gennaio 2024 mi muovo in un campo nuovo, quello del carcere; collaboro come esperto esterno con la Casa Circondariale di Teramo, giurisdizione del Provveditorato del Lazio Abbruzzo e Molise

La maggior parte dei detenuti stranieri che si incontrano oggi nelle carceri, e anche in questo di Teramo, provengono da condizioni di vita degradate; mancano di documenti; di una dimora e un lavoro fisso; sono privi di una rete familiare, e quello che è più deleterio, sono spesso senza un diploma o una competenza professionale. 

Alcuni degli stranieri extracomunitari che arrivano in Italia e fanno richiesta di asilo politico o di qualche tipo di protezione internazionale e ricevono il diniego, rimangono sul suolo italiano allo sbaraglio, senza nessun mezzo per cavarsela e quindi, vengono cooptati dalla malavita per lo spaccio oppure per altri impieghi delittuosi, finendo così in carcere. Attenzione, non intendo affermare che la povertà induce ad azioni delittuose per forza, ma è una strada che tenta le persone; vuoi perché si lotta per la propria sopravvivenza, perché si vogliono aiutare i figli a casa, perché non si desidera deludere la famiglia che mette tutte le speranze di un futuro migliore nella partenza di un suo membro. Si delinque anche perché si proviene da zone di guerra e di indigenza dove la regola della strada, del più forte, della violenza, la fa da padrona. Spesso quindi si delinque perché si è deboli e soli.
Dunque, la “via maestra” per ridurre le presenze straniere in carcere, è quella dell’osservazione delle cause che hanno portato a tale condizione, ed agire poi per un cambiamento.
Sappiamo tutti che un buon comportamento si forma negli esseri umani fin da piccoli; si struttura con l’amore e la cura di una famiglia, con l’istruzione scolastica, con attività di socializzazione. Un ottimo comportamento viene suscitato anche da una condizione giuridica stabile; gli stranieri sono incentivati ad una giusta condotta, quando hanno un permesso di soggiorno di lunga durata, che permetta loro di cercarsi un lavoro in regola e stabile
Ma sono condizioni che molti dei detenuti non hanno mai avuto.
Inoltre, molti (non tutti)  detenuti hanno un passato personale avvilente; se dovessi fare una analogia potrei dire che sono sprovvisti di un “faro di buona condotta” e arrivano un po’ alla volta alla devianza. Qualcuno ha dovuto fare conti con un padre prepotente e violento, padre tiranno, oppure subire il trauma per un genitore che è scomparso prima di darli una carezza e il sostegno materiale. Alcuni dei detenuti provengono da zone di guerra, dove la lotta fisica è la normalità; Altri , partiti con mezzi di fortuna dalla lontana Asia, sono caduti nelle mani dei trafficanti, dopo aver patito la stanchezza, il freddo e la fame, da qualche parte nei Balcani. Altri ancora sono vittime della subcultura familiare rom – dell’accattonaggio, pratica che non è mai stata scoraggiata abbastanza dagli stati che hanno ospitato questa popolazione. Attenzione non mi riferisco a tutta la cultura rom, che bisogna rispettare. È vero, abbiamo delle leggi che impediscono l’impiego dei minori nell’accattonaggio, ma cosa facciamo per dissuadere da questa pratica? Mettere in stato di detenzione gli aduli che mandano i figli ad elemosinare non basta. Non basta nemmeno pagarli per andarsene altrove, come hanno fatto alcuni paesi europei in passato, ottenendo in realtà l’effetto contrario. Ci vorrebbe un piano serio per la scolarizzazione e per il lavoro, magari riproponendo loro le professionalità di artigianato nelle quali sono storicamente abili.
Rimettersi in carreggiata”, una volta scontata la pena, è la formula magica per i detenuti. Certo, la strada della “redenzione” si prevede difficile dopo lungo tempo di inattività in uno spazio infimo, in ambiente difficile e senza adeguata assistenza psicologica e psichiatrica. Negli Istituti e anche nel mio, ci sono operatori che con abnegazione e molta professionalità si prodigano per evitare il collasso psicologico dei detenuti, ma sono insufficienti. Sono insufficienti gli agenti di custodia.
Il mio lavoro è  quello di facilitare la comunicazione tra l’ente e i detenuti, tra gli operatori italiani e i detenuti, ma è anche di osservazione e trattamento. I reclusi sono invitati ai colloqui (da me quelli stranieri) a cadenza temporale, per valutare il loro stato psicofisico e, laddove si intraveda una anomalia comportamentale, vengono segnalati a chi di competenza. In questo modo si possono evitare almeno alcuni dei tanti suicidi, ma il fattore di imprevedibilità rimane. Faccio colloqui anche per individuare la storia familiare e personale nonché quella migratoria, ecc.
In più, ai colloqui, i detenuti possono esprimere le loro difficoltà e le loro richieste e, tra le richieste più frequenti, c’è quella di poter lavorare. Il Ministero della Giustizia promuove la pratica del lavoro in carcere come un “trattamento educativo” e il lavoro viene remunerato. La maggior parte dei detenuti vorrebbe aderire a tali progetti perché ha necessità di mandare dei soldi ai figli ma anche per loro stessi tuttavia, gli istituti, riescono a fare lavorare solo una piccola parte ed è sciocco se pensiamo di quanta mano d’opera necessitano l’agricoltura, l’industria ed altri settori!
Ai colloqui vedo i detenuti con una dentatura malsana, per vari motivi. Lamentano per questo un malessere generale. Qualcuno non riesce a mangiare per tale causa. In carcere si può fare poco in questo senso; si fanno estrazioni e poco altro. Ci vorrebbero volontari dentisti, odontoiatri, odontotecnici per sopperire alla mancanza dei fondi degli istituti, e spero che qualche operatore del settore si faccia avanti. In genere, i detenuti stranieri arrivano già in carcere con varie patologie, che variano da diabete, a malattie gastro intestinali, alle quali si aggiungono problemi di sonno, di ansia e depressione, che non sempre possono essere adeguatamente gestite dai pochi medici di servizio. Ci sono detenuti che non dovrebbero essere in carcere, ma nei centri di disintossicazione. 
La povertà e il bisogno non sono mai una scusa per delinquere, a maggior ragione inseguire semplicemente guadagni facili e, la tentazione di molti di noi è quella di biasimare i detenuti. È estremamente sbagliato rubare e cagionare male agli altri, ma detto questo, la legge ed il senso dell’umanità, indicano la strada “dell’educazione dei detenuti” ; di una seconda opportunità, ed è questo che l’intera società è vincolata a fare ed è proprio quello che intendo fare anche io, nel mio piccolo, e in concerto con gli altri operatori nei programmi di trattamento e osservazione.
Ricordiamoci che le persone non sono le loro azioni. Colui che ha commesso un crimine non è necessariamente un criminale: è una persona che ha sbagliato ma che può cambiare, con l’aiuto di tutti.

 

   disegno di Adriano Virgili