SAN BENEDETTO DEL TRONTO – È avvenuta Venerdì 17 Maggio, alle ore 21:00, presso l’Hotel Progresso in San Benedetto del Tronto, la presentazione del libro “Di cosa è fatta la speranza” (Edizioni Bompiani), un romanzo che ripercorre la storia di Cicely Saunders, l’infermiera britannica, divenuta poi medico e filosofa, che ha inventato le cure palliative.
Oltre allo scrittore Emmanuel Exitu, autore televisivo e drammaturgo al suo esordio come romanziere, erano presenti come relatori la dott.ssa Claudia Benedetti, dirigente medico Servizio Cure Palliative USL Umbria 1 e il dott. Romeo Bascioni, medico presso il Reparto di Oncologia dell’Ospedale Madonna del Soccorso di San Benedetto del Tronto.
L’incontro, organizzato dalla Libreria “Libri ed Eventi” in collaborazione con il Centro Culturale “La Mongolfiera“, è stato moderato da Emilio Cistola, presidente del Centro, e Mimmo Minuto, proprietario della Libreria e decano dei librai sambenedettesi che da oltre quarant’anni è al timone della rassegna “Incontri con l’autore”, una iniziativa che nel tempo ha portato nella città rivierasca numerosi e prestigiosi personaggi della cultura nazionale ed internazionale. Presente in prima fila anche il vescovo Carlo Bresciani.
A dare il via alla serata, sollecitato dagli organizzatori, è stato proprio Mons. Bresciani, il quale ha ricordato il suo coinvolgimento nella prima equipe che ha preparato il primo hospice d’Italia: “Negli anni Ottanta ho dato il mio contributo, per quanto concerne l’aspetto bioetico, nella formazione dei medici che poi hanno lavorato alla “Domus Salutis“, il primo Centro di Cure Palliative italiano aperto a Brescia nel 1987. Pertanto ho accettato volentieri l’invito a partecipare a questa assise, essendo molto legato al tema trattato. Credo fermamente nell’importanza e nell’efficacia delle cure palliative, quindi apprezzo molto l’iniziativa e voglio manifestare il mio plauso agli organizzatori”.
L’incontro è poi entrato nel vivo con le parole dell’autore del romanzo “Di cosa è fatta la speranza”, Emmanuel Exitu: “Cicely Saunders ha innovato la terapia del dolore con ricerche e procedure rivoluzionarie, tuttora considerate dall’Organizzazione Mondiale della Sanità il metodo più efficace per migliorare la qualità della vita dei malati. Io sono rimasto affascinato da questa donna che ha lottato tutta la vita per restituire dignità ai malati terminali. E ci è riuscita. Guidata dalla fede e dal suo spirito scientifico, riesce a fondare nel 1967, a Londra, il primo hospice moderno. Nella sua fede povera, Cicely ha trovato degli abissi di speranza. La fede, infatti, è un grande dono che ci rende capaci di leggere più a fondo la realtà. Lo sosteneva anche il teologo – poi divenuto Papa – Joseph Ratzinger, che ha presieduto la Commissione che ha preparato l’enciclica “Fides et ratio“, promulgata da Giovanni Paolo II nel 1998. Egli affermava che la fede e la ragione, se lavorano insieme, raggiungono risultati maggiori e migliori”.
Ripercorrendo la vicenda umana e professionale di Saunders, Exitu ha poi parlato dei dolori a cui un malato terminale è esposto, soffermandosi in particolare sul dolore relazionale e su quello spirituale e mettendo in luce il misterioso abbraccio tra il dolore e la speranza. “Una speranza – ha affermato – che permette di entrare nel dolore con pienezza. Una speranza che può illuminare fino all’ultimo respiro. Una speranza che è fatta di cose che hanno bisogno di qualcuno che le faccia accadere. Una speranza che, siccome esiste, può essere descritta”. L’autore, ha così elencato alcuni degli ingredienti di cui è fatta la speranza, come l’empatia, l’ascolto, l’osservazione e il tempo ritrovato.
In merito ad alcuni di questi ingredienti hanno raccontato la loro esperienza gli altri due illustri relatori.
In particolare la dott.ssa Benedetti, geriatra e palliativista, ha ricordato “l’ostinata e tenace osservazione di Cicely Saunders, che trascorreva ore interminabili a guardare i pazienti per capire come aiutarli. La sua osservazione, che era pura, attenta e senza pregiudizi, le consentiva di capire questioni anche mediche, come la gestione della morfina. Una osservazione che le permetteva di arrivare all’essenziale della relazione. È questo il segreto del nostro lavoro e anche il segreto che ci ha lasciato Cicely: la cura della relazione”.
Dello stesso avviso anche il dott. Bascioni, oncologo ed esperto di cure palliative che, ripercorrendo gli inizi della sua carriera, ha evidenziato i passi in avanti compiuti nella Medicina grazie a Cicely Sauders: “Quando ho iniziato la professione, l’aspetto più importante nella cura dei malati terminali era rappresentato dalla ricerca di nuovi farmaci, mentre la parte clinica era messa in secondo piano. Poi ho incontrato il dott. Attilio Gramazio, che è stato il mio Cicely. Una sera, dopo una settimana di intenso lavoro, mi ha comunicato che non avrebbe preso parte all’uscita pianificata per il week-end, perché – e ripeto le sue esatte parole – ‘c’è un giovane ragazzo che devo far morire bene’. Da lì mi si è aperto un mondo e la cura della relazione con i malati terminali è diventata una delle priorità”. Bascioni ha poi sottolineato l’importanza della figura del volontario e ha raccontato le sue esperienze negli hospice di Montegranaro e di San Benedetto del Tronto.
Di quest’ultimo e della professionalità e sensibilità del suo personale sanitario, ha parlato anche la signora Catia, figlia del grottammarese Giuseppe Amadio, morto circa tre mesi fa, dopo aver trascorso le sue ultime quattro settimane di vita nell’hospice ubicato al quinto piano dell’Ospedale Madonna del Soccorso: “Dovrebbero esserci più strutture di questo tipo, perché sono un supporto a volte indispensabile. Non ci si rende conto di certe situazioni, finché non ci si trova a viverle. Sono grata al dott. Bascioni, alla dott.ssa Giorgi, all’associazione Bianco Airone che supporta il Reparto e a tutti gli infermieri che ci sono stati vicino in un momento di grande tristezza, come Neamt Voichita Adela, Yelitza Celestini, Pupaza Tatiana Mihaela, Alda De Falco, Giulia Cori e Cesara, di cui non conosco il cognome. Per me e i miei familiari sono stati degli angeli che hanno accompagnato, in un momento difficile e delicato, sia mio padre sia noi che lo assistevamo, donandoci immensa dolcezza, grande empatia e tante accortezze“.
Molteplici gli spunti di riflessione stimolati dalla presentazione del libro e dal dibattito che ne è seguito. La morte e il dolore fanno parte della vita, ma è possibile accettarli e attraversarli fino in fondo, senza esserne sopraffatti o senza pensare che il migliore interesse sia sopprimere la vita prima della sua fine naturale? Dove nasce la speranza che sostiene concretamente nel dolore e rende la vita possibile e degna di essere vissuta fino all’ultimo? C’è una utilità e un bene per la persona malata nel vivere la propria vita fino in fondo anche nella sua fase terminale? Perché le cure palliative sono così importanti? Quale deve essere il ruolo della medicina nella cura dei malati non guaribili? A queste domande fondamentali, che interessano ogni persona di qualsiasi credo religioso o politico, si è cercato di dare risposta senza retorica e senza barriere di tipo ideologico, così come del resto fa anche il romanzo: il taglio esperienziale di ogni pagina, infatti, riconduce le domande sul fine vita all’osservazione e alla concretezza della quotidianità e unisce in un abbraccio di speranza tutti gli uomini e le donne, credenti e non, legati da una comune condizione di vulnerabilità. In tal senso “Di cosa è fatta la speranza” non è solo la storia di una donna e della sua capacità di trovare speranza anche dove si pensava non ci fosse, ma è anche la storia di tutti noi, perché questa capacità di trovare speranza può appartenere a ciascuno di noi.