“Gli abitanti di Gaza si trovano in una grande prigione. Un’associazione, di appartenenza sconosciuta, chiede tra 7.000 e 8.000 dollari a persona per il permesso di uscire da Rafah in Egitto. Alcune famiglie sono riuscite a pagare, altre stanno cercando di raccogliere fondi per questo scopo. Adesso il passaggio di Rafah è chiuso”: è quanto dichiarato da mons. William Shomali, vescovo ausiliare di Gerusalemme e vicario patriarcale per la Palestina che ad Acs, (Aiuto alla Chiesa che soffre), ha fornito un aggiornamento sulla drammatica situazione dei cristiani di Terra Santa. “A Gaza prima della guerra vivevano 1.017 cristiani. La maggior parte di loro ha visto le proprie case distrutte. Chi ricostruirà? Nessuno conosce quale sarà la situazione a Gaza all’indomani della guerra. Trenta fedeli sono rimasti uccisi mentre sono già partite più di 250 persone, tra le quali cittadini con doppia cittadinanza, alcuni malati e studenti che intendono proseguire gli studi”. La guerra sta avendo un forte impatto anche sui cristiani palestinesi della Cisgiordania e su quelli di Gerusalemme Est. “Circa il 40% di loro lavorava, direttamente o indirettamente, nel turismo. Sono guide, autisti di autobus turistici, dipendenti di alberghi, Il Covid aveva dato un duro colpo a questo settore. Si era appena ripreso quando è arrivato il 7 ottobre. Da allora non ci sono più stati pellegrini e questi cristiani hanno sofferto per la perdita del lavoro o per un drammatico calo del loro reddito. Il Patriarcato latino, sulla base di studi e statistiche, stima che solo nel settore del turismo siano più di 3.000 le famiglie che hanno perso il lavoro, senza contare le centinaia di persone impiegate come operai in Israele nell’edilizia o in altri settori”. A livello internazionale lo scontro ideologico fra i sostenitori di Israele e quelli della Palestina si sta infiammando, di conseguenza la voce delle comunità cristiane rischia di essere soffocata oppure distorta per finalità politiche. A fronte di ciò, mons. Shomali sottolinea quale sia il reale intendimento della comunità cristiana locale: “I due popoli in conflitto desiderano vivere in pace. La stessa terra viene rivendicata da ambedue i popoli, gli ebrei per ragioni bibliche, i palestinesi per ragioni storiche.
La soluzione sarebbe quella dei due Stati, con Gerusalemme città aperta e condivisa. La comunità cristiana non crede si possa risolvere il conflitto con la forza, che non fa che accrescere l’odio e preparare un altro ciclo di violenza. Solo una soluzione giusta può portare la pace e la riconciliazione”. Il Patriarcato Latino di Gerusalemme sta aiutando le comunità cristiane con vari progetti, finanziati anche da Aiuto alla Chiesa che Soffre, in particolare un programma di aiuto umanitario per Gaza e la Palestina per fornire alle persone malate farmaci, operazioni mediche, borse di studio, affitti delle case. Con la società Saint-Yves, un ramo legale del Patriarcato latino, “stiamo lavorando per migliorare la situazione ai check-point. La maggior parte di questi posti di blocco è stata chiusa dopo il 7 ottobre. Saint Yves è riuscita ad aprirne più di uno. Le chiese sono riuscite ad aumentare un po’ le quote di permessi concessi da Israele per l’ingresso di un certo numero di lavoratori palestinesi, anche se non sono soddisfatte tutte le richieste. Abbiamo creato anche borse di lavoro per consentire alle persone di avere un reddito. In base al programma sono stati assunti 400 lavoratori, i quali ricevono uno stipendio di 650 dollari al mese. Sappiamo che questo aiuto è insufficiente per compensare la perdita delle entrate, ma almeno manteniamo le famiglie fuori dalla miseria, in attesa dei giorni migliori”.
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