Bruno Desidera
“Padre, morire ad Haiti per la violenza delle bande, o morire in mezzo al mare, divorato da uno squalo fa così tanta differenza? Allora, meglio morire cercando di vivere”. È quello che, in questi giorni, si è sentito dire da un giovane padre Olin Pierre Louis, sacerdote haitiano approdato a Porto Rico nel 2010, e che nella parrocchia di San Matteo, a San Juan, ha accolto, a partire dal 2013, migliaia di migranti disperati. Un’attività, sempre più intensa, mentre il mare diventa un cimitero. I Caraibi come il Mediterraneo. Barconi di disperati inghiottiti dalle onde. Familiari che chiedono, invano, notizie dei loro cari. Sul mare americano, del resto, si affacciano tre popoli in fuga, i protagonisti dei maggiori flussi migratori del continente, e tra i maggiori al mondo: venezuelani, haitiani e cubani. Si parla poco, del mar dei Caraibi, più noto per i paradisi tropicali che diventano mete del turismo di massa, come di un “mare di morte”. In effetti, la principale rotta seguita dai migranti in America (in ogni caso pericolosissima) è quella “di terra”, attraverso la Colombia, l’America centrale, e il Messico. Ma una via non esclude l’altra, soprattutto quando, è il caso del Venezuela, oltre sette milioni di persone hanno lasciato il Paese (e continuano a farlo, ogni giorno), o quando, è il caso di Haiti, l’alternativa è morire sotto i colpi delle bande criminali, oppure di fame. Già nel 2023, l’Organizzazione mondiale delle migrazioni (Oim) avvertiva che almeno 350 migranti erano morti o dispersi sulle rotte marittime nei Caraibi nel 2022, un numero record, in aumento rispetto ai 180 del 2021, probabilmente sottodimensionato, come emerge anche dalle testimonianze cui ci apprestiamo a dare spazio.
Naufragi quotidiani tra Repubblica Dominicana e Porto Rico. I “punti neri” sono numerosi. Il più famoso è il tratto di mare che separa Cuba dalla Florida, per la verità oggi sempre più presidiato. Molto meno conosciuto, ma luogo di continui naufragi, è il tratto che separa la Repubblica Dominicana, nell’isola di Hispaniola, luogo di partenza di disperati haitiani, ma anche di non pochi dominicani, rispetto all’isola di Porto Rico, territorio incorporato agli Stati Uniti d’America. Di quest’ultimo, fa parte anche l’isola di Mona, posta, più o meno, a metà tragitto. Ma spesso i disperati haitiani cercano anche di raggiungere, a nord, gli arcipelaghi di Turks and Caicos e delle Bahamas, oppure, a sud, la Giamaica.
“Il canale di Mona, che separa Repubblica Dominicana e Porto Rico, è un tratto di mare molto pericoloso – conferma al Sir padre Olin -. I naufragi sono praticamente quotidiani, stimiamo 200 morti all’anno. Ne abbiamo avuti 6 anche la scorsa settimana. Le barche sono tutte di clandestini, l’arrivo di haitiani è aumentato negli ultimi mesi del 120%, a causa della situazione del Paese. Partono da Santo Domingo, da dove fuggono anche per i livelli altissimi di xenofobia nei loro confronti. Porto Rico, inoltre, è un territorio incorporato agli Stati Uniti d’America”.
Anche per questo, l’isola di Porto Rico è particolarmente “attrattiva”. Conferma il sacerdote: “Qui arrivano non solo haitiani, ma anche cubani, venezuelani, gli stessi dominicani. Ci sono donne minori, molte coppie”. Il ricambio, nella casa di accoglienza della parrocchia di San Matteo, è continuo. Una sorta di “oasi” per i disperati che approdano a San Juan di Porto Rico, dove l’atteggiamento delle autorità verso gli irregolari non è propriamente amichevole. Padre Pierre, che compie questo servizio con il pieno mandato e collaborazione dell’arcidiocesi di San Juan, oltre a una prima accoglienza, cerca di dare un futuro e delle prospettive a queste persone: “Cerco di fare realizzare i loro sogni. Alcuni restano qui, altri cercano di riunirsi ai loro familiari, perlopiù negli Usa. Molti haitiani sono riusciti a entrare negli States grazie allo status di protezione concesso dall’allora presidente Barack Obama. Io cerco di dare una mano anche per i documenti”. Il sacerdote haitiano non è, comunque, solo. Ce lo conferma, sempre da San Juan, padre José Aridio Taveras, che da alcuni anni organizza, nella capitale di Porto Rico, la Via Crucis del migrante, che ha l’obiettivo di unire i popoli di Haiti, Repubblica Dominicana e Porto Rico: “L’iniziativa è promossa dalla comunità Fratelli tutti. L’obiettivo è creare vincoli di fraternità, abbattere le paure e i pregiudizi, pregare per le tante persone che muoiono affogate”. Il sacerdote conferma l’aumento dei migranti che giungono in situazione irregolare, non solo gli haitiani, ma anche “molti dominicani, che vogliono migliorare il loro livello di vita rispetto a dove vivono”. La Via Crucis ha avuto un impatto importante, anche perché, al di là dell’atteggiamento restrittivo delle autorità, “il portoricano solitamente è accogliente verso chi migra. Anche tra i nostri connazionali, molti hanno fatto questa esperienza.
La rotta marittima dei venezuelani. L’altro grande esodo ben visibile nel mar dei Caraibi è quello dei venezuelani, pur trattandosi di una rotta secondaria, rispetto a quelle continentali. Continui punti di approdo sono i Paesi insulari che si trovano a nord della costa: Trinidad e Tobago, soprattutto, raggiungibili attraversando le “bocche del dragone”, un braccio di mare largo una decina di chilometri; e poi, più a est le isole di Curaçao e Aruba. Padre Jesús Villarroel, direttore della Caritas della diocesi di Carúpano, che si affaccia sul mar dei Caraibi, e collaboratore della rete latinoamericana Clamor, vede le barche partire ogni mattina.
“Da qui si vede di tutto – dice al Sir -. Disperati che si mettono in mare senza alcuna sicurezza, traffico di persone, di droga, di minerali. Negli ultimi anni abbiamo avuto almeno quattro naufragi. Il mare è pericoloso, e i migranti, una volta giunti a Trinidad e Tobago, vengono molto spesso rimpatriati dalle autorità del Paese. Poi, però, tentano di nuovo di ripartire”. Padre Villaroel cerca di accompagnare queste persone, “di sanare le loro ferite. La maggioranza dei migranti che salpano è costituita da donne”.
Non pochi venezuelani, poi, entrati in Colombia (dove godono di uno speciale visto), raggiungono in aereo l’isola di San Andrés, territorio colombiano che geograficamente si trova nel cuore del mar dei Caraibi, di fronte al Nicaragua. E da lì salpano verso il Paese centroamericano, distante ben 250 chilometri. Proprio verso il Nicaragua erano diretti, per esempio, i 49 venezuelani partiti da San Andrés lo scorso ottobre, e inghiottiti nel nulla. Al momento, nell’arcipelago di San Andrés, anch’esso a vocazione turistica, sono presenti ufficialmente circa 1.500 venezuelani che hanno espresso volontariamente la loro intenzione di rimanere nelle isole, quindi non significa che questo sia il numero totale di venezuelani presenti, informa Iracema Vianca Taylor Mclaughlin, direttrice della locale autorità migratoria. “Per quanto riguarda la migrazione irregolare – aggiunge -, va chiarito che la rotta marittima attraverso l’isola di San Andrés, come opzione di transito verso l’America Centrale, è ciò che ha permesso la crescita accelerata di questo fenomeno, motivo per cui sono state adottate misure istituzionali per mitigarlo”.
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