Di Pietro Pompei
SAN BENEDETTO DEL TRONTO – Per molti di noi tornare su lu Campanò è significato rituffarsi nell’infanzia, quando sgattaiolavamo dietro il campanaro, Beniamino, arrampicandoci su per le scale sconnesse fatte di legno tarlato. San Benedetto la racchiudevi in uno sguardo, da lu fusse a sud, alle terre Ascolani a nord, là dove il contadino Sbosce aveva la vigna appoggiata al gelso. Il mare sembrava lambire la chiesa della Madonna della Marina che, con la sua maestosa facciata copriva l’Ospedale e le casupole uniformi fino alla ferrovia. Qui c’era sempre un pennacchio di fumo dietro il quale correvano i nostri sogni verso spazi che mai avremmo pensato, un giorno, portarli dentro casa su uno schermo televisivo. I bracci del porto, protesi a cercare un abbraccio senza fine, racchiudevano la nostra piscina all’aperto nell’invito a continue gare, da una punta all’altra, con qualche testa spaccata. Allora, sorretto dal primo zaùtte che nella stiva dei pochi e modesti pescherecci aveva casa, eri portato all’Ospedale, dove ad accoglierti c’era l’onnipresente Liò. Qui, tra spirito e garze, dovevi ascoltare i rimbrotti del burbero infermiere e gli insegnamenti delle solerti suore, che come le pandàfe correvano da una stanza all’altra. Caro vecchio Ospedale, ridotto ad una anonima palestra scolastica, tempio, un tempo, di poca medicina, ma di tanta umanità!
Ora a sud-est e sud-ovest ti si fanno incontro due mostruosi ammassi di cemento armato, quasi ad intimorire chi volesse pretendere delle spiegazioni. Come Scilla e Cariddi, da un lato l’alveare che inizia viale De Gasperi, immagine di un ghetto in un periodo di fame degli alloggi, dall’altro la disordinata costruzione di un Ospedale che avrà aumentato i posti letto e le specializzazioni, ma ha perso in identità e vieppiù in umanità. Non ci si conosce più e non ci si vuol conoscere, a cominciare dal Pronto Soccorso che continuamente assiste a lamentele di una precarietà che contraddice se stesso: Ospedale, forse unico in Italia, rimasto per molto tempo, senza la possibilità di un caldo caffè e di un giornale, servizi che trovavi in qualsiasi supermercato.
Caro Campanò, costruzioni disordinate ti impediscono, per fortuna, di vedere la spiaggia, dove correvamo spensierati dietro una palla fatta di cenci tenuti insieme da uno spago. Fra poco non ci sarà più concesso di accedervi senza il biglietto di ingresso, tanto si sono ridotti gli spazi liberi. Ti hanno decantato il nuovo tratto del lungomare, mentre certi chalet, ogni anno, si trasformano a costruzione libera nella disattenzione completa dei preposti alla norma urbanistica. Lo stile liberty ti deliziava nelle rare costruzioni che formavano i primi viali rubati ai relitti di mare, oggi va di moda lu rattatto’ e lo trovi dappertutto, nelle costruzioni, nell’abbigliamento e dentro le còccie della gente. Quante lacrime ha visto il selciato su per la costa, mentre in modo spericolato, mettevamo a prova di resistenza, tentando di arrampicarci su per le mura della rocca, i pantaloni di fustagno che spesso si strappavano. Povere mamme, al lume incerto delle candele, tentavano un’opera paziente di rammendo, perché non si notasse il frego. Neppure la più fertile fantasia avrebbe potuto precorrere i tempi in cui i buchi ai pantaloni sarebbero diventati di moda e lu ciciàlle un ornamento a cui appendere lustrini. Chi non ricorda le belle feste paesane che venivano a scuotere un lavoro monotono e senza pretese, e tu le arricchivi con il suono festoso che metteva dentro una serenità senza pari. Oggi guardi silenzioso e stai perdendo la tua identità in un linguaggio che non è più tuo tra la gente che si inerpica su per il tuo ventre. Ti hanno infiocchettato di luci, come un pezzo da museo, ma stanno spegnendo la tua memoria.
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