Daniele Rocchi
Conoscersi non per combattersi ma per convivere. È la “missione” che, da oltre 30 anni, Ysca Harani, docente di storia delle religioni, porta avanti seguendo le orme del padre fondatore del Dipartimento di Scienze religiose comparate dell’Università ebraica di Gerusalemme. Harani ieri, a Gerusalemme, ha incontrato il gruppo di 160 pellegrini guidato dal card. Matteo Zuppi, arcivescovo di Bologna e presidente della Cei, in questi giorni in Terra Santa.
Fattore decisivo. Mai come dopo il 7 ottobre 2023, per Harani, ebrea osservante, il dialogo è diventato un fattore decisivo all’interno della società israeliana e non solo. Stando sempre in piedi per tutto l’incontro – “la comunicazione avviene guardandosi negli occhi e così posso vedervi meglio” ha detto ai pellegrini – la storica ha ribadito un concetto fondante della sua missione:
“Prima del conflitto viene il bene”
che va cercato “nell’incontro con le persone, di qualunque fede e opinione, nel parlare non solo di ciò che ci unisce ma anche delle nostre differenze, con sincerità”. La stessa sincerità con cui Harani ha ‘rimproverato’ i suoi amici cristiani che non l’avevano più cercata e chiamata dopo il 7 ottobre. “Uno di loro – ha rivelato – mi ha confessato che non voleva prendere posizione. Ho risposto: io non sono una posizione ma un essere umano. Prendiamo anche una posizione ma parliamo, dialoghiamo, e soprattutto ascoltiamo quella dell’altro”. Un appello che sembra calzare alla perfezione per la società israeliana che, ha spiegato Harani, “era polarizzata anche prima del 7 ottobre: da un lato chi crede che la terra non sia proprietà esclusiva del popolo ebraico e dall’altro chi, invece, la ritiene tale, sostenendo l’estremismo e l’esclusione. La destra religiosa si è radicalizzata ulteriormente – ha denunciato la storica -. I suoi sostenitori sono arrivati vandalizzare i cartelli stradali che indicano le chiese. Adesso sono ancora più aggressivi e accaniti contro Hamas, contro i cristiani, tutti devono andare fuori. Questo atteggiamento di esclusione suona come una sconfitta per Israele”.
Sotto shock. Non è stato facile, nemmeno per Harani, dopo il 7 ottobre: il risveglio “con i numeri delle vittime che salivano ogni minuto, 100, 200, 300 fino a 1200 uccise con crudeltà: “Uno shock che resta vivo e ancora tutto da metabolizzare. Dopo l’attacco di Hamas sono rimasta chiusa in casa perché non riuscivo ad alzarmi e uscire. Solo due settimane dopo ho ripreso la mia attività. La prima cosa che ho fatto è stata di andare a trovare in ospedale mia nipote di 19 anni, ferita grave ma viva, che prestava servizio militare in uno dei kibbutz vicino Gaza attaccati il 7 ottobre. Due suoi commilitoni morendo le hanno fatto scudo salvandole la vita”. Poi, ha aggiunto la donna, “sono andata al sud di Israele, verso Gaza, dove sapevo che c’erano delle fattorie abbandonate dalla popolazione sfollata ed evacuata. Lì ho prestato servizio tre mesi come volontaria per mantenere le fattorie operative, per non perdere i raccolti. Guardavo sempre il telefono per vedere chi mi chiamava e chi no”. Molti non hanno chiamato ma “una cosa bella che è successa è stata ricevere un messaggio di vicinanza del patriarca latino di Gerusalemme, il card. Pierbattista Pizzaballa. Gliene sono grata”.
Non si può restare in silenzio. Harani non ha voluto “chiudere gli occhi” davanti a quanto stava accadendo in Israele e con i volontari della sua associazione, che si occupa di libertà religiosa e di dialogo, ha cominciato a riallacciare contatti e relazioni con quei gruppi e associazioni cristiane che avevano denunciato sputi, aggressioni e minacce, fisiche e verbali, da parte di estremisti religiosi e coloni, per chiedere loro come stavano.
“Non possiamo restare in silenzio davanti alle aggressioni contro i cristiani – ha spiegato – perché se lo facciamo andremo presto ad affrontare un mostro. Le piccole aggressioni sono un paradigma di quelle più grandi come è successo a noi il 7 ottobre”.
“Se la società civile non interviene questo fenomeno diventerà normalità. In Israele ci sono molte persone che lottano per l’inclusione e l’integrazione. Vogliamo restare attaccati al sogno che questa guerra finisca. Il timore per il nostro futuro non può giustificare atti di violenza”.
Ma quale futuro? “C’è una speranza di vivere insieme nonostante le differenze – ha risposto Harani – e questa passa per le nuove generazioni. I più piccoli non vanno esposti alla brutalità come accaduto in una scuola palestinese dove sono state affisse delle foto di bambini morti a Gaza. Dovremmo essere noi adulti israeliani a vedere quelle immagini, a vedere Al Jazeera perché la nostra Tv non ci fa vedere niente e non ci dice cosa accade dall’altra parte. Noi adulti abbiamo la responsabilità di vedere quelle immagini”.
“I bambini non devono crescere in mezzo a questa brutalità non hanno la capacità di metabolizzarla. I genitori parlino loro del dolore dell’altro ma senza esporli alla brutalità, perché non è giusto. Devono separare la loro disperazione dall’educazione dei figli”.
“La mia famiglia mi ha trasmesso la convinzione che possiamo vivere insieme, forse sono ingenua, ma credo che questi due popoli possano vivere insieme. Dipende molto dall’educazione che si riceve. Educhiamo i nostri figli alla pace diversamente continueranno la guerra”.