Di Daniele Rocchi
(Ain Arik) Ain Arik è un villaggio palestinese di circa 2000 anime, situato a pochi chilometri a nord di Ramallah. Per raggiungerlo si deve attraversare il muro di separazione israeliano. Quando ci si arriva, a colpire subito è la presenza dei campanili delle due chiese locali, quella latina e quella ortodossa, accanto al minareto della vicina moschea. Vicinanza che racconta una lunga storia di convivenza interreligiosa. Oggi i due terzi degli abitanti del villaggio – tra i quali anche famiglie di rifugiati venuti da Haifa dopo la nascita dello Stato israeliano nel 1948 – sono di fede islamica ma la carica di sindaco è affidata ad un cristiano. La scuola della parrocchia latina, guidata da padre Firas Abedrabbo, è frequentata da 250 alunni, in larga maggioranza musulmani. Inoltre, dalla metà degli Anni Ottanta del secolo scorso, nel villaggio si è insediato un piccolo nucleo di monaci e monache della Piccola Famiglia dell’Annunziata, la comunità fondata da Giuseppe Dossetti, agli inizi degli anni ’50. Ad unire ulteriormente la popolazione locale è la sofferenza provocata dall’occupazione israeliana, divenuta ancora più opprimente in seguito all’attacco terroristico di Hamas del 7 ottobre scorso, come testimoniato da alcuni abitanti cristiani del villaggio nel corso di un incontro con il card. Matteo Zuppi, arcivescovo di Bologna, avvenuto nei giorni scorsi nella piccola chiesa della parrocchia latina. Con il presidente della Cei anche un gruppo di fedeli giunti in Terra Santa per un pellegrinaggio di pace e solidarietà promosso dall’arcidiocesi bolognese.
Vivere sotto occupazione. “Quello che stiamo vivendo è un momento molto difficile. Speriamo che il Signore renderà giustizia” sono state le parole di Khalil, alle spalle le due Intifada e un lungo impegno politico all’interno del Consiglio comunale locale di cui è stato anche presidente. “La guerra in corso a Gaza si sta ripercuotendo anche qui in Cisgiordania – ha ricordato –. Stiamo assistendo a un vero e proprio massacro di palestinesi. Pochi giorni fa, nel villaggio qui vicino di Kafar Naeme, 4 giovani sono stati uccisi dall’esercito israeliano. Dopo il 7 ottobre si sono intensificati blocchi e irruzioni dei militari. Israele ha revocato i permessi di lavoro e molte famiglie non hanno più una fonte di reddito. Revocati anche i permessi per andare a pregare a Gerusalemme. L’acqua, che qui è controllata da Israele, viene erogata solo per il 50%. L’esercito con le sue irruzioni ha danneggiato scuole, strade, farmacie. Siamo disperati”. La soluzione? “Due popoli due Stati ma Israele pensa solo a colonizzare. La comunità internazionale stia vicino al popolo palestinese e sostenga il suo sogno di pace”.
La voce dei giovani. Soffrono i musulmani e soffrono i cristiani che sono una minoranza. “In molti pensano a emigrare, è un pensiero costante” ha raccontato Jacqueline, giovane sposa con una figlia piccola.
“Per noi cristiani la sfida più grande è restare nella nostra terra dove siamo nati e cresciuti, e vivere con dignità e nel diritto. Il conflitto in atto da decenni è entrato nel nostro Dna, fa parte del nostro vissuto quotidiano così come la paura di essere arrestati”.
Jacqueline parla per esperienza personale: “Mio marito, mio padre e mio fratello sono stati presi dai soldati israeliani durante una irruzione notturna in casa. La nostra colpa era quella di avere un’attività di lavorazione del ferro. Tanto è bastato ad Israele per ritenerci possibili fabbricanti di armi. Ci hanno devastato tutta l’officina. Poi però, ascoltando le notizie che arrivano da Gaza, ci sentiamo quasi obbligati a ringraziare Dio perché non siamo nella loro stessa situazione”. Jeries, 18 anni, un futuro da costruire e un percorso di studi da ultimare. Purtroppo, per la sua esperienza, anche “finire la scuola è un’impresa. Dopo tanti anni di studio, spesso ci ritroviamo a fare dei lavori per i quali non hai studiato e non hai competenza. Vivere sotto occupazione significa anche non poter uscire per andare a Ramallah a trovare qualche amico. Non sai mai cosa potrebbe capitarti, i soldati israeliani ti fermano e ti arrestano”.
Marianne frequenta ingegneria informatica presso l’università di Birzeit nota come “l’università dei ‘martiri’ perché molti dei suoi studenti hanno sacrificato la vita per chiedere libertà e giustizia per la Palestina. Quando vediamo le loro foto nei locali delle nostre facoltà pensiamo che i prossimi a morire potremmo essere noi.
L’occupazione non distingue tra cristiani e musulmani, siamo tutti palestinesi.
Il nostro popolo, tra tutti quelli del mondo arabo, è conosciuto per essere uno dei più istruiti e un popolo istruito fa più paura di uno ignorante per questo Israele fa di tutto per ostacolare la nostra formazione. Spesso i militari entrano nell’università e prelevano studenti senza motivo”. Vivere sotto occupazione militare non impedisce ai cristiani di Ain Arik di “pregare per la pace e di cercare, per quanto possibile, di dimenticare che siamo in guerra e sotto occupazione. Siamo giovani palestinesi che, come tutti i nostri coetanei nel mondo, abbiamo i nostri sogni da realizzare, la nostra vita da costruire, ma è più difficile in queste condizioni. La Chiesa e la parrocchia hanno sempre rappresentato un rifugio e un sostegno spirituale e materiale per tutti noi. Questa presenza ci aiuta a sperare”.