Basiński Tomasz
Padre Manuel João Pereira Correia, missionario comboniano, convive da 14 anni con la Sclerosi laterale amiotrofica (Sla) e risiede nel Centro di Castel d’Azzano a Verona.
Come è nata la tua vocazione missionaria?
La mia vocazione missionaria… è nata con me! Dalla mia tenera infanzia sentivo il desiderio di essere sacerdote. Forse dovuto all’influsso di mia madre che, da piccolissimo, mi chiedeva durante la santa messa: “Manelzinho, non vorresti essere prete anche tu?” Quel desiderio fu crescendo con me, in modo tale che, quando mi chiedevano cosa vorrei essere da grande, rispondevo con convinzione: “Voglio diventare prete!” I miei compagni e alcuni famigliari mi deridevano, ma il sogno si mantenne vivo.
Quando avevo dieci anni, durante la scuola elementare, un comboniano passò da noi e ci parlò con entusiasmo della vocazione missionaria. Alla fine ci chiese chi vorrebbe andare in Africa con lui. Ma nessuno alzò la mano. Nemmeno io, per timidezza. La maestra, che forse intuiva che io potrei essere un ‘candidato’, mi fecce chiamare durante la pausa e mi presentò a quel promotore vocazionale. Alcuni mesi dopo fu accolto nel seminario. E così nacque la mia vocazione di sacerdote comboniano.
Naturalmente la strada fu lunga. I dubbi arrivarono con l’adolescenza. Durante il noviziato, durante il ritiro di preparazione alla professione religiosa, andai dal Padre Maestro e gli disse: “Padre, ho paura!” Mi rispose: “E tu credi che non l’abbiano anche i tuoi compagni? Fa come loro: chiudi gli occhi, fidati di Dio e fa il salto!” E così feci io!
Ma i dubbi ritornarono. Mi chiedevo se quella fosse la mia strada! Invidiavo i colleghi che ne erano certi e sicuri e volevano anticipare la professione perpetua e l’ordinazione, mentre io cercavo di rimandarle il più possibile! E mi lamentavo con Dio di non essere più chiaro con me. Non volevo accettare che questa fosse la legge dell’incarnazione di Dio, della sua presenza, della sua voce e dei suoi segni. Quelli erano tempi turbolenti, dopo il post-Concilio e la rivoluzione sessantottina, in cui si contestavanno i valori della vita religiosa e particolarmente del celibato.
Mi stupisco ancora oggi che siano state due ragazze, a loro insaputa, il segno o la luce che Dio mi ha inviato per prendere la grande decisione. Fu nell’estate del 1977, a Londra, durante un periodo di lavoro in un ristorante, con tanti altri studenti di diverse nazionalità. Verso la fine di quella esperienza, due ragazze (irlandesi?), avendo scoperto che ero un seminarista, mi confidarono che avevano notato in me qualcosa di “speciale” e, per mia sorpresa, mi incoraggiarono ad andare avanti. Lì ho preso coscienza della perla che portavo in me e che, con il tempo e la routine, si era impolverata, ecco perché non provavo più il suo fascino. Quello fu il momento della decisione. Di ritorno a Roma per finire gli studi, chiesi, con grande serenità, la professione perpetua e l’ordinazione sacerdotale.
Devo precisare che la decisione di dare il mio SÌ definitivo al Signore non è scaturita da un chiarimento dei miei dubbi, ma piuttosto da un’intima convinzione che, anche se il futuro rivelasse che la mia era stata una decisione azzardata o addirittura sbagliata, il Signore avrebbe dato senso alla mia storia. Questa convinzione è diventata per me come una “promessa di senso”: “Io sarò sempre con te per dare senso alla tua vita!” Questa promessa mi ha sempre accompagnato e ha illuminato i momenti difficili della mia vita.
Pochi giorni prima dell’ordinazione, mio padre mi confidò che, al momento del mio concepimento (sono il figlio primogenito), i miei genitori fecero una specie di preghiera o consacrazione: “Signore, se il nostro primo figlio è un maschio, te lo offriamo perché diventi sacerdote!” E mi disse che non me l’aveva detto prima per non condizionarmi nella mia scelta. Un’altra confidenza, di mia madre (che guardo solo per me!), mi commosse profondamente. Mi rivedo nella vocazione di Geremia, con i suoi dubbi, timori e timidezza, ma chiamato da Dio dal seno di sua madre!
Hai lavorato in diverse comunità e Paesi fino a quando, nel 2010, è accaduto qualcosa che ti ha obbligato a tornare e a rimanere in Europa. Che cos’era?
Ho cominciato ad avere difficoltà di deambulazione e mi chiedevo cosa fosse. In un primo momento ho pensato che si trattasse di mancanza di esercizio fisico. Di sera, finite le attività, mi diedi alla corsa in bicicletta. Quando divenne chiaro che era qualcos’altro, andai da un neurologo che mi consigliò di rientrare subito nel mio paese, in Portogallo, per fare degli esami e mi consegnò una lettera in busta chiusa da presentare ad uno specialista.
Arrivato a casa, la aprii e lessi la sentenza: diagnosi probabile: Sclerosi laterale amiotrofica, cioè Sla. A Lisbona questa diagnosi mi fu confermata.
Quando chiesi al medico quale potrebbe essere il decorso della malattia mi rispose: “Molto semplice, prima camminerà con le stampelle, poi in carrozzina, poi…”. Lo ringraziai per la schiettezza e me ne andai! Ritornai in Africa (Togo) per concludere gli ultimi mesi di servizio come responsabile dei comboniani nell’Africa occidentale(Togo, Ghana e Benin) e, alla fine dell’anno, rientrai in Europa. Nella messa di congedo la gente mi offrì tanti regali. Ringraziai, ma dissi loro che mancava il regalo principale: un bastone! La gente rispose: “Nooo, padre!” Alla sera, però, un consigliere del presidente della repubblica mi portò un bastone artistico che gli era stato regalato dal presidente. Facendo scalo a Casablanca, scendendo dall’aereo mi appoggiai al bastone che, essendo stato fatto non per reggere pesi ma per bellezza, si rompi, così lo abbandonai in un cestino dell’aeroporto!
Come hai reagito quando hai ricevuto la diagnosi dal medico?
La prima notte piansi un po’, lo confesso, ma poi il Signore mi concesse una grazia di cui non mi aspettavo: una grande serenità, che mi ha sempre accompagnato. Certo, all’inizio mi chiesi perché proprio a me doveva capitare quella disgrazia, ma subito io stesso mi diedi la risposta: “E perché non doveva capitare proprio a te? Sono per caso un privilegiato?!”. Mi venne in mente, pure, una preghiera che mi veniva spesso. Sentivo dire, certe volte, quando qualcuno moriva improvvisamente nel sonno: “Ecco una morte invidiabile!” Io ritenevo, invece, che fosse una vita strappata, e chiedevo al Signore di poter morire consapevole del suo arrivo per poter consegnare la mia vita nelle sue mani. Allora mi lamentai con Dio: “Ma, Signore, non ti sembra che sia troppo presto?”.
Pensavo spesso al momento in cui sarei completamente prigioniero nel mio corpo, ma una certezza mi dava pace: “Non sarò solo, il Signore sarà prigioniero dentro di me!”.
Pensavo, inoltre, alla possibilità di essere completamente isolato dalla realtà esterna, ma un’altra convinzione crebbe in me: “Avrò sempre la possibilità di vivere nel mondo interiore che abita nella cattedrale del mio cuore!”. Adesso, quando mi chiedono come sto, rispondo: “Sono abbonato allo ‘Sto bene!’”. L’abbonamento, però, lo pagano tante persone che mi vogliono bene e pregano per me!
Il tuo ministero è certamente cambiato con evoluzione della sua malattia?
Sì, certo. All’inizio mi aspettavo di vivere, al massimo, qualche anno. Infatti, ho visto morire gli amici che ho conosciuto con la mia stessa malattia. Dato che il Signore mi concesse qualche anno supplementare (sono ormai più di dodici anni!), ho pensato di offrire il mio piccolo contributo nel campo della formazione permanente dei confratelli, creando un blog e condividendo con loro del materiale di formazione. Finché la mia situazione me lo permise, mi sono prestato a collaborare con alcuni gruppi, con la mia testimonianza, e coltivando le amicizie.
Una volta hai detto che la tua sedia a rotelle è diventata un pulpito per te… Come lo vedi?
Sì, ritengo che la mia carrozzina è il pulpito che Dio mi ha dato per proclamare la Parola di Dio. Credo che la nostra croce è il luogo più adatto per annunciare la Parola. Mi rivedo nel profeta Giona nel ventre della balena, che mi porta là dove Dio vuole.
Navigo nel mare della vita, tra le sue due sponde. Da un occhio del cetaceo guardo la vita in questo margine, dall’altro occhio intravedo l’altra sponda che ci aspetta, nella foschia della fede e della speranza.
Ogni volta che mi ricordo di te, vedo un uomo sereno e sorridente. Da dove viene questa tua gioia?
La serenità che mi accompagna dall’inizio della malattia è dono di Dio. Ne sono certo, perché io ero piuttosto preoccupato riguardo ai problemi di salute, che non mi sono mancati in missione. Il sorriso lo chiedo ogni giorno al Signore.
Dal 2018 sei completamente immobile. Come vivi la dipendenza dagli altri?
È il mio modo di vivere il voto di povertà: avere bisogno e dover chiedere tutto! Ma è pure una maniera di coltivare la gratitudine per ogni piccola cosa. Oltre a ringraziare Dio per tutte persone che generosamente si prodigano per assistermi, cerco sempre di retribuire con un sorriso sulle labbra e una benedizione nel mio cuore.
Dall’altra parte, questo risulta assai facile perché tutti mi vogliono bene e mi coccolano! La dipendenza dagli altri, inoltre, è un esercizio di fiducia e di abbandono, ma soprattutto una palestra di pazienza! Questo che è vero per me, lo è anche per i miei confratelli di comunità, che mi danno dei belli esempi, in questo senso.
E come comunichi con gli altri, per esempio, adesso con me?
Comunico soprattutto con gli occhi, l’unica parte del corpo che posso ancora muovere. Con gli occhi scrivo, grazie a un computer con un software speciale che ‘legge’ gli spostamenti degli occhi. Una delle tante meraviglie della tecnica!
Come vivi la tua vocazione missionaria?
Amo la vita e amo ripetere che la vita è bella! Cerco di trasmettere questo senso di meraviglia a quanti mi stanno vicini. Continuo ad interessarmi e ad accompagnare la vita del nostro mondo, della società, della Chiesa e della missione. Lo faccio per passione e per aggiornare continuamente il mio blog comboni2000.org.
A volte le persone che sperimentano malattie e sofferenze provano dolore e rabbia verso Dio. Qual è il tuo rapporto con Dio oggi?
Nella malattia ho scoperto la generosità di Dio! Da un po’ di anni, mi impressionava l’immagine della visita del Signore come un ladro. Intuivo che era una visita dolorosa. Spontaneamente mi veniva da chiedere al Signore di non visitarmi da ladro. Che venisse da amico e bussasse alla mia porta, anche da amico importuno, fino a costringermi ad aprirgli, per amicizia o per forza! Quando il Signore mi visitò con la malattia, mi venne spontaneo esclamare: “Signore, sei un ladro!”. Di volta in volta mi portava via qualcosa. Ho scoperto, però, che è un ladro molto speciale. Non ti porta via mai niente senza lasciarti qualcosa di più valido.
Cosa diresti alle persone che hanno perso la speranza e sono infelici nella loro sofferenza e malattia?
Direi che la vita è sempre opportunità! Fin dall’inizio della malattia mi accompagna una convinzione: la vita non ti chiude mai una porta senza aprirne un’altra. Soltanto che spesso rimaniamo così ostinatamente bloccati davanti a quella porta chiusa, che non ci rendiamo conto che un’altra porta si apre nel frattempo. All’inizio la malattia era per me come un muro tenebroso che mi tagliava completamente ogni prospettiva d’orizzonte.
La convinzione che la vita è sempre opportunità mi ha portato a guardare con altri occhi quel muro e ad intravedere una porta, fin lì invisibile ai miei occhi, che mi offriva una nuova visione della vita, più profonda, più vasta e più bella, oserei dire!
Naturalmente la fede mi ha aiutato in questo processo. Certo, ci sono delle situazioni particolarmente tragiche, difficili da accettare e da gestire. Per il credente è l’ora della speranza e della fede nel trionfo della vita, di cui la croce e la morte sono la gestazione. Al non credente direi di fare fiducia all’istinto della bellezza della vita. Anche quello è un cammino di speranza che ci conduce, seppur inconsapevolmente, verso la Vita!