DIOCESI – Lectio delle Sorelle Clarisse del Monastero Santa Speranza di San Benedetto del Tronto.
C’è un protagonista nelle letture che, oggi, la liturgia ci propone: il mare. Non possiamo però porci di fronte a queste pagine con la tranquillità, la pace, la contemplazione che, sicuramente, molti stanno già sperimentando in questi giorni lungo le nostre spiagge.
Il mare, le grandi acque, il diluvio sono, nella Scrittura, simbolo del caos, della morte, del nulla, del male.
Secondo la Bibbia, poi, il mare è popolato di mostri dai nomi impressionanti (tutti ricordiamo, ad esempio, il Leviatan).
Perché il mare facesse così paura agli Israeliti, così tanto da riferirsi ad esso quasi esclusivamente per evocare il senso di paura dello sconosciuto, di minaccia e di peccato, non è difficile da capire. Israele, infatti, fu un popolo di terra, un piccolo popolo di pastori e abitanti di zone desertiche e non certo di marinai.
Se noi ci tuffiamo in mare come in una specie di grembo sereno, l’uomo biblico vi penetra con terrore, sentendolo quasi come l’abbraccio della morte.
E Dio solo può strappare l’uomo da quelle fauci.
Recita così il salmo di questa domenica: «Nell’angustia gridarono al Signore, ed egli li fece uscire dalle loro angosce. La tempesta fu ridotta al silenzio, tacquero le onde del mare. Al vedere la bonaccia essi gioirono ed egli li condusse al porto sospirato».
Anche il libro di Giobbe, da cui è tratta la prima lettura, ci presenta la potenza di Dio affermando che egli è colui che fissa dei limiti al mare, ne imbriglia la forza devastante, lo domina. Ascoltiamo le parole che Dio rivolge proprio a Giobbe: «Chi ha chiuso tra due porte il mare, quando usciva impetuoso dal seno materno, quando io lo vestivo di nubi e lo fasciavo di una nuvola oscura, quando gli ho fissato un limite, gli ho messo chiavistello e due porte dicendo “Fin qui giungerai e non oltre e qui s’infrangerà l’orgoglio delle tue onde?”».
Il Vangelo, poi, ci propone il passo della tempesta sedata. «In quel giorno, venuta la sera, Gesù disse ai suoi discepoli: “Passiamo all’altra riva”. […] Ci fu una grande tempesta di vento e le onde si rovesciavano nella barca, tanto che ormai era piena. Egli se ne stava a poppa, sul cuscino, e dormiva. Allora lo svegliarono e gli dissero: “Maestro, non t’importa che siamo perduti?”».
E’ un’immagine così vera della nostra fede, entusiasta per l’incontro con Cristo e poi quasi annullata dalle vicissitudini della vita che, non poche volte, ci fanno annaspare nel mare delle nostre paure, contraddizioni, dubbi.
Questo mare è sempre con noi, sia che siamo gente di mare sia che siamo semplici abitanti del mondo. Fa paura agli apostoli, faceva paura al popolo di Israele ma, anche per noi, può trasformarsi in un muro invalicabile.
Come ci risponde Gesù? «Si destò, minacciò il vento e disse al mare: “Taci, calmati!”. Il vento cessò e ci fu grande bonaccia. Poi disse loro: “Perché avete paura? Non avete ancora fede?».
No, Signore, non quanta ce ne servirebbe per attraversare il mare in tempesta.
Non abbiamo ancora fede nonostante un Dio al quale, come dicono gli stessi apostoli, «anche il vento e il mare obbediscono», un Dio, come canta il salmista, che conduce «al porto sospirato» e che, anche «nel mare profondo», ci fa vedere e gustare le sue meraviglie.
Gesù è venuto a rivelarsi come Dio che condivide, che soffre, che conosce la tempesta ma non ne ha paura, un Dio, come abbiamo visto la scorsa domenica, che ci insegna la logica del seme che cade nella terra e con essa soffre la siccità o la tempesta. Un Dio umile che lotta con l’uomo, che lo rende libero e coraggioso, che soffre per lui, che affronta la morte con lui.
Si tratta di una novità inaudita, di una Parola che, scrive San Paolo, ci fa nuove creature e rende tutto nuovo: non viviamo più per noi stessi avendo come unico scopo accaparrarci la vita e difenderci dalla morte ma viviamo per Lui, affascinati dalla logica della mitezza e dell’umiltà proprie dell’amore e certi dei frutti di vita che, persino morendo, il seme può portare.