Foto Calvarese/SIR

Alberto Baviera

“Negli ultimi 10 anni, la crescita dell’astensionismo, che è stata forte soprattutto in alcuni Paesi europei, si è andata a combinare con un crescente consenso a forze che sono ‘anti-sistemiche’, populiste, fortemente critiche nei confronti dell’establishment; questo, per quanto l’astensionismo sia sempre difficile da interpretare, è possibile che sia un segnale quantomeno di forte disaffezione espresso da una parte consistente dell’elettorato”. Parte da qui Damiano Palano, professore ordinario di Filosofia politica e direttore del Dipartimento di Scienze politiche dell’Università Cattolica de Sacro Cuore, per riflettere con il Sir su astensionismo, affermazione delle forze “anti-sistema” e stato di salute della democrazia rappresentativa alla luce di quanto emerso nella tornata elettorale di inizio giugno nella quale si è votato per il rinnovo del Parlamento europeo e, in Italia, anche per i nuovi vertici di Regione Piemonte e di 3.698 Amministrazioni comunali.

Professore, l’astensionismo che ha coinvolto quasi il 50% degli europei è sintomo della crisi della democrazia?
In linea generale, è sempre difficile interpretare il fenomeno dell’astensione. Perché i politologi si distinguono in coloro che la ritengono un sintomo di disaffezione nei confronti della politica e in quelli che, invece, la ritengono un fenomeno fisiologico delle democrazie consolidate; per cui secondo alcuni è un segnale preoccupante, secondo altri non lo è. Va però sottolineato che

i trend nei diversi Paesi europei sono molto diversi: nell’Est europeo, alcuni dei Paesi entrati da poco nell’Ue hanno sempre fatto registrare livelli di partecipazione al voto molto bassi. Viceversa, i Paesi fondatori hanno percentuali mediamente più elevate, anche se nel corso degli ultimi 20 anni, si sono affievolite.

Analizzando i dati dell’ultima tornata consultazione elettorale, poi, in alcuni Paesi l’affluenza è addirittura aumentata, probabilmente anche a seguito del successo della mobilitazione dei partiti anti-europeisti o euroscettici, come in Olanda.

Di un’affluenza alle urne scarsa o comunque ridotta rispetto al passato se ne parla giusto nel giorno seguente alle elezioni, in attesa dei risultati definitivi. Può la classe politica sentirsi deresponsabilizzata da questo comportamento dell’elettorato e accettarlo con un dato di fatto acquisito?
In generale, probabilmente alla classe politica interessa ridurre l’astensionismo fino ad un certo punto, perché quello di cui ci si preoccupa è soprattutto recuperare quella parte di astensione dei voti considerati “vicini”. C’è in sostanza un interesse selettivo e questo è anche comprensibile. Va anche riconosciuto che non è del tutto vero che non ci sia stato qualche tentativo di far fronte alla crescente astensione. Per esempio, alcuni anni fa è stato commissionato un Libro bianco sull’astensione che cercava di capire quali potessero essere degli strumenti per ridurre il numero degli astenuti in Italia. Però, di fatto, le soluzioni indicate andavano a recuperare sostanzialmente il voto degli studenti fuori sede che avevano difficoltà a partecipare al voto. Alle ultime elezioni europee è stato adottato un meccanismo che ha consentito anche agli studenti fuori sede di votare, ma in realtà coloro che hanno effettivamente fruito di questa possibilità sono stati circa 24mila persone, sicuramente un dato molto basso, poco significativo. A livello dell’Unione europea, la campagna che ha preceduto le ultime consultazioni, ha visto ripetuti appelli all’importanza del voto da parte delle Istituzioni europee. Il problema, in particolare nel voto europeo, è che – stando a quello che ci dicono molti sondaggi – la sensazione di incidere scarsamente sul risultato è molto forte; in generale, i cittadini percepiscono le Istituzioni europee estremamente lontane e guidate da logiche su cui gli elettori non hanno la possibilità di incidere più di tanto. Quello dell’astensionismo è dunque un fenomeno a più livelli, che non è stato affrontato nel modo adeguato. Certo è che ha un rilievo l’offerta che danno i partiti politici.

La bassa affluenza è un fenomeno che la cui gravità è tale da non poter essere più sottovalutata.

Le democrazie europee, e in particolar modo quella italiana, sono pronte per funzionare se chi governa è legittimato da un voto a cui partecipa solo un cittadino su due?
In linea generale, in termini di legittimazione democratica, un governo che viene espresso a seguito di elezioni con procedure regolari è sempre legittimato. Dopodiché, è indubbio che se i meccanismi con cui si giunge alle formazione di un governo sono tali che questo venga percepito come fortemente minoritario dalla gran parte della popolazione, la fiducia nei confronti di quel governo – e in generale delle istituzioni – si indebolisce ulteriormente. Questo è un fenomeno che per lungo tempo è stato considerato come sostanzialmente fisiologico, come avviene per esempio nel Regno Unito. Negli ultimi anni, in diversi Paesi europei, il fenomeno è diventato un po’ più rilevante:

la percezione che il governo sia espressione solo di una parte residuale, minoritaria – a volte fortemente minoritaria – dell’elettorato, ha indebolito fortemente la fiducia nei confronti degli esecutivi e questo ovviamente ha comportato anche delle difficoltà da parte degli esecutivi a portare avanti il loro mandato.

Astensionismo e affermazione delle forze “anti-sistema” o ai margini del sistema fino a poco tempo fa, che fenomeno mettono in luce?

L’astensione ha ovviamente diverse facce: ci sono elettori totalmente sfiduciati, elettori apatici, distanti nei confronti della politica, elettori delusi da specifiche forze politiche.

Sicuramente il successo che hanno avuto le formazioni estreme – che possiamo chiamare in vari modi, ma che sono in questo momento soprattutto forze della destra più radicale, più estrema – è dovuto al “recupero” di sostenitori nel bacino degli elettori disillusi che, in questa proposta politica, trovano la carta per protestare contro un sistema dei partiti in cui non si riconoscono più.

Concentrandosi sull’Italia, facendo un confronto tra voto europeo e voto locale, è emerso che più è vicino ciò per cui si è chiamati a scegliere più c’è affluenza. Come interpretare questo segnale sullo stato di salute del nostro sistema democratico?

A livello locale si tende a partecipare di più alle elezioni e questa partecipazione cresce anche al diminuire delle dimensioni geografiche del centro per cui si vota: nei piccoli centri si vota tendenzialmente di più rispetto alle grandi città dove invece si vota sempre di meno. La partecipazione tende a diminuire sempre di più quanto più il livello di governo si allontana, ad eccezione naturalmente delle elezioni politiche in cui la partecipazione è comunque tradizionalmente più ampia. Negli ultimi anni, per le elezioni regionali abbiamo visto tutto sommato un’affluenza molto bassa anche in Regioni che storicamente avevano livelli di partecipazione al voto abbastanza alti, come in Emilia-Romagna. Nel complesso, questa dinamica ci dice che

la dimensione locale è quella a cui tendenzialmente si è più legati e in cui soprattutto c’è la sensazione che la partecipazione abbia una un’incidenza.

Questo – ritengo – ci dovrebbe far riflettere sul fatto che

eventuali riforme volte a “guarire” la democrazia, cioè a ripensare i processi partecipativi, probabilmente dovrebbero partire dalla dimensione più locale,

perché è questa la realtà in cui effettivamente attivare la partecipazione risulta più semplice e può dare risultati maggiori.

Negli ultimi anni, in alcuni Stati europei, sembra, a volte, che i capi di Stato o di governo abbiano assunto quasi un atteggiamento di “sfida” nei confronti dei concittadini chiamandoli alle urne per consultazioni – referendum o elezioni parlamentari – nelle quali più o meno esplicitamente hanno messo in gioco il proprio futuro politico. Si tratta di una deriva preoccupante?
Sicuramente si tratta di un azzardo che nei calcoli di chi lo tenta dovrebbe produrre risultati positivi. Ma, come ci dice la storia, non sempre questi si verificano. Tra gli azzardi molto famosi c’è il referendum lanciato da Charles de Gaulle dopo il 1968 e che alla fine lo costrinse alle dimissioni. Più recentemente c’è quello con cui David Cameron chiamò i cittadini britannici a pronunciarsi sulla permanenza o sull’uscita del Regno Unito dall’Ue, vedendo sconfitta la sua linea. In Italia, c’è poi quello di Matteo Renzi sul referendum di conferma della riforma costituzionale, il cui esito portò alla fine della sua esperienza a Palazzo Chigi. Questi esempi sembrano dirci che

i leader dovrebbero essere un po’ più cauti nel giocare la carta dell’azzardo.

Per quanto riguarda la Francia, nei prossimi giorni vedremo se Macron sarà più fortunato dei suoi predecessori. E, in Italia, dopo il lungo iter parlamentare, vedremo come andrà il processo di riforma costituzionale sul premierato. Complessivamente, sicuramente si tratta di manovre che cercano di far leva da una parte sulla dimensione del ricatto, dall’altra sulle componenti emotive dell’elettorato; in un’ottica di discussione democratica e di razionale confronto delle diverse posizioni, sicuramente si tratta di una forzatura, perché

chiamare i cittadini a pronunciarsi in maniera così secca in un senso o nell’altro contribuisce ad inasprire il confronto con l’effetto di polarizzare le posizioni con modalità che a volte non sono controllabili. È qualcosa che fa leva più sulle passioni e sulle paure. È, a ben guardare, un meccanismo che è un po’ implicito nella deriva personalistica che stanno subendo le istituzioni democratiche da parecchio tempo.

Ed è indubbiamente una deriva che comporta più di qualche rischio, perché quando la polarizzazione si innesca farla rientrare negli alvei delle istituzioni può diventare difficile. Da questo punto di vista quello che sta avvenendo nella politica statunitense dovrebbe insegnarci qualcosa.

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