DIOCESI – In questi giorni il Vescovo emerito Carlo Bresciani è tornato a Brescia. Prima della sua partenza l’abbiamo intervistato.
Quale è il progetto a cui teneva tanto e che è riuscito a realizzare per la Diocesi?
Non sono arrivato in Diocesi con progetti specifici: non conoscevo nulla della Diocesi ed ho sempre creduto che bisogna inserirsi innanzitutto nel cammino già in atto. Solo poi si può forse vedere quali progetti iniziare, sentendo anche i vari Consigli diocesani. Il mio vescovo di Brescia, Mons. Monari, quando annunciò alla Diocesi la mia nomina a vescovo disse che ero chiamato a continuare l’attuazione del Concilio Vaticano II. Entrando in Diocesi scoprii che da poco era stato celebrato il Sinodo Diocesano e certo questo tracciava una linea ben precisa.
Una cosa però avevo in mente ed è chiara nel mio stemma episcopale: servire la Chiesa e accompagnare la sua crescita nella consapevolezza di essere il “Corpo di Cristo” e questo ho cercato di vivere e di fare.
Quale è invece il sogno che non è riuscito a realizzare?
I sogni sono sempre tanti, ma c’è sempre una distanza tra il sogno e la realtà, anche quando il sogno è buono e non solo fantasia. Questo significa che i sogni, anche se realistici, si realizzano sempre parzialmente in questo mondo. Il motivo sta nel fatto che la Chiesa è fatta di una pluralità di persone concrete, con i loro pregi e i loro limiti. Inoltre, come dice spesso papa Francesco, si tratta più che altro di iniziare processi ed è già molto riuscire ad iniziare processi che possano avere sviluppi positivi nel futuro.
In questi anni ci sono state diverse criticità. Come ha vissuto questi momenti?
Due eventi hanno segnato questi anni in modo particolare e molto forte. Dapprima il sisma del 2016 che ha reso inagibili parecchie chiese (compresa la cattedrale), ha ferito molte comunità e ha provocato notevoli danni non ancora del tutto superati: ci vorrà ancora del tempo, purtroppo. Poi il covid19 che per alcuni anni ci ha costretto a chiusure e limitazioni, a sospendere le celebrazioni con la presenza dei fedeli, ad avere forti preoccupazioni per la salute e addirittura per la vita. Tutto ciò ha condizionato fortemente programmi e progetti e a rinviare la programmata visita pastorale alla Diocesi. Anche la ripartenza, una volta cessata la pandemia, non è stata facile e se ne avvertono ancora le conseguenze.
Un vescovo vive tutto ciò traendo dalla preghiera la forza di condividere con Gesù le sofferenze che affliggono il suo corpo che è la Chiesa e quelle del popolo che gli è stato affidato e che, a sua volta, non cessa di raccomandare e affidare a Lui e alla sua misericordia.
Come sono andate le Unità Pastorali, secondo lei?
Il Sinodo diocesano, in comunione con il cammino della Chiesa italiana, aveva deliberato che si procedesse con l’avvio del processo verso le unità pastorali, non solo per la carenza del clero, ma come risposta a quello che papa Francesco chiama un cambiamento d’epoca. In Diocesi in questi anni si sono avviate alcune unità pastorali. Alcune funzionano bene, altre con maggior difficoltà dovute a tanti motivi, personali e no. Sono convinto che la strada del futuro della Chiesa è verso una maggior collaborazione e integrazione tra le parrocchie. Per questo, ho cercato di stimolare la crescita degli organismi di partecipazione e di corresponsabilità – come richiesto, tra l’altro, dal Sinodo diocesano – incontrandoli due volte all’anno a livello vicariale. A questo proposito, oltre al Delegato per la pastorale, ringrazio i facilitatori, che mi hanno aiutato in questi incontri. Il cammino da fare, però, verso una pastorale integrata e verso una autentica corresponsabilità dei laici è ancora lungo.
Non so se le forme di unità pastorale trovate fino ad ora siano definitive (ce ne sono di diversi tipi nella Chiesa in Italia e all’estero), ma è certo che i confini delle parrocchie sono ormai permeabili e non possiamo più pensarli in modo rigido, se non altro per la mobilità dei fedeli. Ciò esige un cambio di mentalità sia dei sacerdoti che dei fedeli e richiede certamente tempo.
Lei resterà membro del clero della Diocesi di San Benedetto?
Certamente sì, con la nomina a vescovo sono stato incardinato nella Diocesi e resto incardinato anche da vescovo emerito.
Dove andrà a vivere da emerito?
Ho ritenuto opportuno, anche se mi dispiace, non rimanere in Diocesi. È una facoltà data al vescovo emerito. Il vescovo di Brescia mi ha offerto ospitalità presso il Centro Pastorale Paolo VI (il centro di tutte le attività pastorali della Diocesi), dove vivrò insieme ad alcuni vicari episcopali della Diocesi.
Pensa di tornare nella sua Diocesi di San Benedetto ogni tanto?
Resto, come dicevo, membro del clero della Diocesi di San Benedetto del Tronto – Ripatransone – Montalto, quindi non è escluso che in qualche occasione particolare ritorni qui. Certo dovrò fare i conti con la distanza, ma il legame di affetto alla Diocesi certamente non verrà meno.
Qual è il suo lascito spirituale alla Diocesi, ai fedeli?
Credo che in questo periodo di spiccato individualismo sia quanto mai importante per tutti riscoprire e vivere una spiritualità di comunione che è caratteristica della spiritualità cristiana, la quale ci abitua a pensare con il ‘noi’ e non con l’‘io’; ad agire per il ‘noi’ e non per l’‘io’. L’individualismo è il grande pericolo di oggi. La tentazione di chiuderci nell’io individuale, di gruppo, di parrocchia o di movimenti e associazioni è sempre presente, ma va combattuta: siamo Chiesa di Cristo, pur nelle diversità, ma lo siamo solo insieme, come corpo unico, appunto. Da soli ci si illude soltanto di andare più veloci e di costruire di più. L’individualismo porta solo divisioni e Gesù ci ricorda che una casa divisa in sé stessa perisce. Io mi permetto di aggiungere: e non ha nulla di positivo da dire e da dare al mondo.
Cosa si aspetta dal futuro e cosa augura a se stesso?
Difficile dire cosa mi aspetto. Certamente ho davanti a me molti cambiamenti di non poco conto. Da vescovo sono messo in pensione. Continuerò ad esercitare il ministero sacerdotale per quanto mi sarà concesso e per il resto mi affido a Dio, come ho sempre cercato di fare nella mia vita.
Conservo però una grande gratitudine per quanto in questi anni mi è stato concesso di vivere con la Chiesa di San Benedetto del Tronto – Ripatransone – Montalto. A tutti va il mio sentito “grazie!”. Per intercessione di Maria, Dio benedica tutti.
Perché per lei è importante la figura di San Paolo VI?
Si può dire che San Paolo VI sia stato il mio primo papa: sono entrato in seminario nel 1966, quando era papa lui. Ma le sue origini sono a Concesio (Brescia) a poco più di 4 Km da casa mia: mia nonna paterna era di lì e quindi avevo parenti a Concesio che conoscevano la famiglia Montini e ne parlavano spesso. Poi imparai ad amarlo sempre più, conoscendo e studiando il suo magistero pontificio, apprezzando profondamente il lavoro e la fatica immane di essere il nocchiero che guidava la Chiesa del post-concilio. Posso dire che ho imparato da lui ad amare la Chiesa, non solo quella ideale, ma quella che esiste veramente, cioè nel concreto momento storico.