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Direttore Pompei: “Le ali spezzate ai gabbiani, una metafora dei tempi moderni?” Speriamo che ogni giovane possa dire come Jonathan: ‘Mi piace volare!”

SAN BENEDETTO DEL TRONTO – Lo sfregio fatto al monumento al gabbiano Jonathan Linvigston è un insulto per la città di San Benedetto del Tronto. Un gesto esecrabile!

Quel colpo d’ala che ci aveva resi orgogliosi e sul quale contavamo per un futuro migliore specialmente per i nostri giovani, è stato rotto da un gruppo di persone che vivono nelle tenebre e che trovano nella violenza la soluzione dell’enigma della propria esistenza.

Torniamo all’etica dei giorni feriti!
Sia noi che siamo sulla riva per essere traghettati, sia quelli ai quali abbiamo consegnato il testimone nei vari ambienti educativi, ma anche quelli che oggi governano, siamo chiamati ad un  inquieto chiederci sul nostro operato.

Che cos’è il vivere? Don Tonino Bello avrebbe risposto: ““Vivere non è «trascinare la vita», non è «strappare la vita», non è «rosicchiare la vita». Vivere è abbandonarsi, come un gabbiano, all’altezza del vento. È assaporare l’avventura della libertà”.

Per saperne di più rispolvero il bel discorso pronunciato dal vescovo Chiaretti nell’inaugurazione del monumento al gabbiano Jonathan Livingston dello scultore Mario Lupo commissionato dal Circolo dei Sambenedettesi nell’anno 1986.

Vescovo Chiaretti: “Quando nel 1973 Il gabbiano Jonathan Livingston del pilota-scrittore Richard Bach comparve nelle librerie italiane, con il suggestivo corredo di fotografie d’un altro innamorato del volo Russel Munson, ebbe un immediato grande successo tra i giovani e nelle scuole. L’orizzonte culturale si stava allora rabbuiando di violenza e quel volo di gabbiani, così fresco e prorompente ‘nei magnifici campi del cielo”, fu un segnale di speranza: parve un magico fiotto di luce che continuasse il miglior ‘68, quello del sogno dei giovani e della fantasia al potere.
A volerlo stringere tra le strettoie della critica, ‘il gabbiano” non era, e non è, più di un racconto, nemmeno lungo, fatto di iridescenze come il mare quando si tinge di mattino, pulito e terso come un volto adolescente non ancora venato di amarezza. Eppure fu un segnale prezioso e i giovani ne fiutarono subito il limpido messaggio di libertà. Era ancora una libertà libertaria, con un vivere per se stessi senza andar contro nessuno. Se era una “libertà da”, non era ancora una “libertà per”: ma sempre di libertà si trattava. E la scuola fu particolarmente sensibile a questo simbolico volo di gabbiani senza complessi.
Qualcuno oggi vuol leggere in quel Jonathan che si stacca dallo stormo una sorta di profezia del riflusso, che sarebbe poi succeduto agli anni di piombo del terrorismo come tragica degenerazione della speranza. Ma allora non fu così. I giovani vi lessero, – e vi leggono -‘ correttamente l’inizio dell’adultezza, sopravveniente come dono dopo l’emarginazione ed il rischio del volo solitario, quando prende ali la fierezza di riuscire a far da sé, nella conquistata libertà. Quell’«imparò a volare» con cui si conclude la prima parte del racconto, somiglia tanto alI’«ho imparato» di Renzo Tramaglino sul finire de «I promessi sposi»: la stessa fatica nella lunga marcia verso i confini d’una responsabile libertà, stessa profonda soddisfazione. Un “imparare” che è anche uno “scoprire” progressivo (altra parola chiave del racconto): il gabbiano Jonathan “scoprì che erano la noia e la paura e la rabbia a render così breve la vita d’un gabbiano”. Una volta immessi sul binario dell’imparare e dello scoprire per sapere sempre di più, si giunge alla grande sintesi esistenziale, che è la chiave di volta dell’intero racconto: “Un gabbiano è fatto a immagine del Grande Gabbiano, è un’infinita idea di libertà, senza limite alcuno, e il vostro corpo, da una punta dell’ala all’altra, altro non è che un grumo di pensiero”.
All’inizio della sua storia Jonathan non era altro che “penne ed ossa”; dopo l’esperienza dei voli arditi, con lo stormo e da solo, è diventato una passione, un’infinita idea di libertà, un grumo di pensiero. Il cucciolino s’è fatto picciotto, e l’adultezza alle porte è ben più d’un presentimento.
Questa mi sembra una possibile chiave di lettura del racconto di Richard Bach. Non a caso esso è dedicato “al vero Gabbiano Jonathan che vive nel profondo di tutti noi”: Jonathan, infatti, “è quel vivido piccolo fuoco che arde in tutti noi”.
Una metafora, dunque.
Una metafora dell’uomo, del suo farsi adulto, anzi del suo farsi, provando e riprovando, per realizzare un progetto innato. Una metafora di quel segmento così breve della vita, ma anche così fascinoso e decisivo, che è l’età della adolescenza e della prima giovinezza. Se in quella stagione il cuore s’apre alla speranza, come deve, allora lo stupore fa per sempre nido nel cuore. Se invece vincono la noia e la paura e la rabbia, e cioè i terribili richiami degli abissi, allora sopraggiunge il gelo d’una vita inutile. Anche a vent’anni. E si cercano stupefazioni artificiali, quali che esse siano, per sopravvivere.
Penso che ogni giovane, dopo aver ricordato la dantesca “libertà che è sì cara” (Purg. I, 71), può ripetere di sé, confrontandosi con l’adolescente Jonathan, “quanto somiglia al tuo costume il mio”.
Poeti e pittori sono sempre rimasti affascinati dalle costumanze del gabbiano, che s’arrischia in voli arditi tra le raffiche scomposte di vento e sfida le avversità, dando speranza a chi teme i marosi. Sa nuotare. Sa volare. Sa scampare alla bufera. Sa gridare, sgraziato di raucedine, per annunciare la vittoria. Questo basta per far dire al Carducci: “Grigio urla il gabbiano sul violaceo mare”. Pare fargli eco il gabbiano di Quasimodo, che “s’infuria sulle spiagge derelitte”.
Nelle antiche culture animistiche era un gabbiano pendulo morto a far da guida rituale allo sciamano in deliquio nella sua solitaria ascesa onirica al cielo dalle sette porte.
Nella disincantata cultura moderna il gabbiano sfida tutti ad entrare nel regno della libertà: libertà dalla paura, libertà di planare sui mari in burrasca con volo pacifico, libertà come amore alla Vita. Tuttavia ‘la cosa più difficile del mondo è convincere un uccello che egli è libero” che ha il diritto sacrosanto alla sua libertà e l’equivalente dovere di farne saggio uso.
Che ogni giovane possa dire come Jonathan: ‘Mi piace volare!”.

Redazione: