Maddalena Maltese
(Da New York) Si è pregato per Donald Trump, ieri, in tante chiese americane. Si è pregato per l’ex presidente dopo l’attentato di cui è stato vittima sabato, durante un comizio in Pennsylvania e per tutto il Paese. Lo aveva chiesto la conferenza episcopale statunitense, per bocca del suo presidente l’arcivescovo Timothy P. Broglio, che in un comunicato aveva condannato la violenza politica spiegando che “non è mai la soluzione ai disaccordi politici”. Stessa richiesta era giunta anche dal vescovo di Pittsburgh, David Zubik, nella cui diocesi di trova Butler, il paese che ospitava il comizio dell’ex presidente, colpito di striscio all’orecchio destro da un proiettile dopo minuti dall’inizio del suo discorso dal ventenne Thomas Matthew Crooks, ucciso a sua volta dai servizi di sicurezza. Iscritto al partito repubblicano, apparentemente senza una particolare passione per la politica e anche per gli amici – molto pochi -, Crooks ha portato nella tomba le motivazioni che lo hanno spinto ad imbracciare un fucile semiautomatico AR-15. Un’arma letale, come tante altre di facile accesso, che il presidente Biden vorrebbe proibire e che invece Trump difende. Si indaga su quanto accaduto, in particolare sulla possibilità che il giovane attentatore ha avuto di appostarsi sul tetto di un edificio e far fuoco, colpendo il tycoon e uccidendo Corey Comperatore, un ex pompiere della zona, che si era prodigato a proteggere con il suo corpo la famiglia e ferendone altre due in maniera grave. E mentre impazzano le polemiche sulla protezione, si susseguono di pari passo le teorie complottiste fino a ipotizzare Biden il mandante dell’azione.
Il vescovo di Pittsburgh, Zubich, con una nota ha da subito operato per smorzare le polemiche. “Siamo grati – ha detto – per le azioni rapide dei servizi segreti e dei nostri primi soccorritori locali”, e ha chiesto di radunarsi in preghiera per la salute e la sicurezza di tutti, per la !guarigione e la pace, e per la fine di questo clima di violenza”.
Una violenza che “non ha posto in America”, ha ribadito subito il presidente americano Biden nel suo discorso di sei minuti pronunciato dallo Studio ovale domenica sera, dopo il primo intervento a caldo di sabato dove raccontava di aver sentito l’ex presidente e di pregare per la sua guarigione.
“Il tentato omicidio è contrario a tutto ciò che rappresentiamo come nazione. Non è quello che siamo come nazione. Tutto questo non è americano e non possiamo permettere che ciò accada” ha sottolineato Biden fissando le telecamere e richiamando, a più riprese, il Paese all’unità. “Dobbiamo unirci come un’unica nazione – ha continuato il presidente – per dimostrare chi siamo”. Biden ha quindi aggiornato sul lavoro degli inquirenti dichiarando che le indagini dell’FBI sono ancora nelle fasi iniziali. Ma soprattutto ha incoraggiato gli americani a non basarsi su supposizioni ma su fatti e confermando che Donald Trump continuerà ad avere “un livello elevato” di sicurezza anche in vista della convention repubblicana che inizierà oggi a Milwaukee. Una convention che a questo punto consacrerà il tycoon candidato ufficiale del partito per le elezioni di novembre. Ed è proprio lì che si confronteranno le visioni diverse di Paese, che da anni non riescono più ad incontrarsi. “In America risolviamo le nostre differenze alle urne”, ha voluto ribadire nel discorso alla nazione Joe Biden, ricevendo apprezzamenti anche da vari strateghi repubblicani e indirettamente dallo stesso Trump che ha messo da parte ogni retorica del furore a favore di un richiamo all’unità.
Alle condanne dell’attentato giunte dai politici di tutto il mondo, si sono unite ieri le preghiere e i sermoni domenicali di alcuni dei capi delle chiese evangeliche del Paese, tutti pronti a Trump come il leader politico che Dio ha voluto preservare e salvare perché “portatore di un progetto divino per il Paese”. Singolare quanto detto dal pastore Hibbs, alla guida una mega-chiesa di oltre 10.000 fedeli in California. Secondo Hibbs l’ex presidente sarebbe stato salvato “perché amico di Israele”. Gli ha fatto eco il pastore Jentezen Franklin della Free Chapel in Georgia che ha chiesto a Dio di fare di Trump “un uomo in missione”, per mantenere l’America “forte e potente”. Altri leader religiosi invece hanno saggiamente invitato tutti a superare la “retorica della rabbia” che continua a popolare i discorsi di entrambi i partiti e che negli ultimi anni ha siglato attacchi indiscriminati a giudici e politici. Le parole rabbiose sono diventate da mesi proiettili e armi contundenti che feriscono e uccidono legami familiari, amicizie, collaborazioni in nome di una politica che rende ogni confronto un duello. Ad uscirne sconfitti sono in tanti ma soprattutto lo è il motto fondativo degli Stati Uniti: E pluribus unum (approvato sul Gran Sigillo degli Stati Uniti nel 1782), e cioè “Da molti uno”, che riconosceva statura ad una pluralità, capace di unità.
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