Di Stefano De Martis
Il governo ha aperto il cantiere della prossima manovra economica. Un cantiere che per la verità non viene mai chiuso del tutto perché, una volta approvata la legge di bilancio entro la fine dell’anno, rimane da fare in concreto più di quello che è stato già fatto sulla carta. Il dato di cronaca, in questo scorcio di luglio, è che sono iniziate le riunioni tecniche in vista di un adempimento introdotto dal nuovo patto di stabilità europeo, con cui i singoli Stati si confrontano per la prima volta. Entro il 20 settembre dovrà essere presentato alla Commissione Ue l’elaborato fondamentale dal punto di vista strategico, il Piano fiscale strutturale, che richiederà verosimilmente un passaggio parlamentare alla riapertura delle Camere dopo la sosta agostana. Ma già entro questo mese dovrebbe pervenire a Bruxelles il documento con cui l’Italia, analogamente agli altri Stati dell’Unione, esprime la sua preferenza per il tipo di piano che sarà adottato. Nel nostro caso si tratta della soluzione “di medio termine”, che prevede un percorso di rientro nei conti spalmato su sette anni anziché quattro. Soluzione praticamente inevitabile, per un Paese con la nostra situazione di finanza pubblica, ma tutt’altro che indolore perché fortemente disallineata con la scadenza del Pnrr, che dev’essere completato entro il 2026. A prescindere dai problemi di attuazione ancora da risolvere, il nodo cruciale è che al momento la crescita economica italiana è quasi totalmente legata proprio al Pnrr, esaurito il quale bisognerà capire dove attingere per gli investimenti necessari a tenere in equilibrio il Piano strutturale di prossima stesura.
Qui si inserisce anche una delicata questione politica. Dopo che FdI e Lega si sono collocati all’opposizione nei nuovi assetti di vertice della Commissione Ue – a rilevare è soprattutto il voto contrario del partito della premier – non ci si può aspettare un trattamento di favore nell’interpretazione dei requisiti e dei vincoli. Per questo Giorgia Meloni è stata accusata dall’opposizione di aver agito da leader di partito – preoccupata di non farsi scavalcare a destra in una fase di generale riassestamento di quel fronte politico, tanto più nella prospettiva delle elezioni americane – piuttosto che da leader di governo. Ma sarebbe irragionevole temere delle ripicche: l’Italia è pur sempre la terza economia della Ue e uno dei Paesi fondatori. Piuttosto c’è da aspettarsi un atteggiamento non indulgente nel rispetto delle regole comuni. Il che rende assai arduo il cammino di proposte come il rinvio della scadenza del Pnrr, su cui non perde occasione di tornare il ministro dell’Economia, Giancarlo Giorgetti.
Quanto ai contenuti, è stato lo stesso Giorgetti a confermare che, tra le poste di bilancio principali, per ora di veramente sicuro c’è soltanto il rifinanziamento del taglio del cuneo fiscale, che da solo vale oltre 10 miliardi. Del resto sarebbe incomprensibile colpire le buste paga in un Paese storicamente ostaggio dei bassi salari, su cui l’inflazione ha inciso più che in tutti gli altri Paesi Ocse: nei primi tre mesi dell’anno, i salari reali erano ancora inferiori del 6,9% rispetto a prima della pandemia. Un capitolo su cui il governo sarà chiamato inderogabilmente a cimentarsi è quello della sanità: la spesa in questo settore è cresciuta, ma è un’illusione ottica dovuta all’inflazione. In realtà siamo al 6,4% del Prodotto interno lordo, il livello più basso degli ultimi sedici anni e in effetti il sistema si regge a malapena, con gravi lacune strutturali (a stento compensate dall’abnegazione di tanti) e con incognite pesanti per il futuro. Quanto all’altro grande tema sociale, quello della povertà, i dati Inps certificano che dopo l’abolizione del Reddito di cittadinanza la platea di coloro che ricevono un sostegno si è sostanzialmente dimezzata a fronte di un aumento della povertà assoluta. Evidentemente nel nuovo assetto c’è qualcosa che non va.