Di Daniele Rocchi
Dopo alcuni mesi in attesa del rilascio, da parte di Israele, del permesso umanitario, il 15 agosto scorso, Emergency è entrata a Gaza per offrire assistenza sanitaria alla popolazione martoriata dalla guerra.
Nell’enclave palestinese, spiega al Sir il capomissione, Stefano Sozza, “Emergency aprirà una clinica per fornire assistenza di base alla popolazione. Il sistema sanitario di Gaza è praticamente al collasso con solo 16, dei 36 ospedali operativi prima della guerra, parzialmente funzionanti. Si tratta di strutture, spesso anche ‘target’ di operazioni militari israeliane, che lamentano gravi carenze nel personale e mancanza di farmaci necessari e che non riescono a trattare l’enorme flusso di malati che vi si rivolgono anche per necessità che potrebbero essere trattate ambulatorialmente”. La situazione nella Striscia è critica e la popolazione è allo stremo costretta a evacuare dall’esercito israeliano da una zona all’altra trovando riparo in rifugi di fortuna. Secondo l’Ocha (l’agenzia Onu che coordina gli affari umanitari) “al 26 agosto scorso circa 305 chilometri quadrati, quasi l’84% della Striscia di Gaza, sono stati posti sotto ordine di evacuazione. Sempre ad agosto 2024, l’area umanitaria, dichiarata da Israele, ad al-Mawasi si è ridotta dai 58,9 chilometri quadrati di inizio anno a circa 46 chilometri quadrati, coprendo circa il 12,6% della Striscia di Gaza. Nella prima metà di agosto sono state negate dalle autorità israeliane 68 missioni umanitarie”. Oltre alla mancanza di servizi sanitari, a Gaza pesano la scarsità di acqua, di cibo e di abitazioni. Inoltre, in queste ultime settimane è stato confermato il ritorno della poliomielite dopo 25 anni. Domenica 1° settembre partirà una campagna vaccinale che punta a immunizzare 640mila bambini sotto i 10 anni. L’Organizzazione mondiale della sanità (Oms) ha annunciato che in alcune aree della Striscia di Gaza ci saranno pause umanitarie dai bombardamenti per permettere le vaccinazioni.
Sozza, in cosa consiste il progetto di Emergency e quali sono gli obiettivi che intende perseguire?
Come detto, Emergency ha deciso di costruire una clinica da campo che fornirà assistenza di salute primaria e di base alla popolazione civile colpita dal conflitto. Nello specifico forniremo primo soccorso, stabilizzazione di emergenze medico chirurgiche e il trasferimento di pazienti a rischio vita o con patologie acute ad ospedali di secondo livello. Trattando ambulatorialmente questi malati, pensiamo di diminuire la pressione su questi ospedali. In questa fase è fondamentale il coordinamento il ministero della salute di Gaza, con altre agenzie, soprattutto con le Nazioni Unite e l’Oms, per evitare il rischio di lavorare in aree simili o vicine e quindi di duplicare i servizi. La clinica vedrà la luce nella zona centrale di Gaza dove abbiamo identificato un lotto di terra circondato da campi di sfollati. Siamo rimasti nella zona umanitaria perché la maggior parte della popolazione si trova qui e quindi avremo un bacino di utenza ampio per fornire i servizi di cui parlavo.
Com’è strutturato il progetto, quante persone impegnerà?
Nella fase iniziale il progetto prevede solo due persone, un capo missione e un logista. Non appena avremo l’accordo con il ministero della Salute di Gaza per costruire la clinica da campo, inizieremo a far entrare staff sanitario internazionale che si occuperà anche delle selezioni dello staff sanitario locale. A pieno regime pensiamo di avere circa una trentina di colleghi di Gaza e dai 6 agli 8 medici ‘internazionali’ che verranno soltanto per coaching e di training e supervisionare l’attività.
Nella Striscia ci sono medici che sanno fare bene il loro lavoro abituati, come son, ad operare in contesti di guerra.
Molti sono stati formati dall’Oms. Nella nostra clinica di prima salute non ci saranno ricoveri quindi avremo un pronto soccorso, 4 ambulatori dove i medici potranno visitare i pazienti, una zona di isolamento con tre letti nel caso dovessero arrivare dei pazienti che hanno patologie contagiose da trasferire ad altre strutture. Si tratta di un lavoro step by step necessario per dare un servizio di qualità come è uso di Emergency.
Quali sono le principali difficoltà presenti sul terreno che possono ostacolare la vostra missione?
Ci si muove in un contesto operativo molto difficile a 360°. A livello logistico stiamo affrontando diverse difficoltà nel reperire edifici da utilizzare come abitazioni e luoghi di lavoro per il nostro staff. Abbiamo un coordinamento con l’esercito israeliano al quale mandiamo le coordinate dei luoghi statici nei quali operiamo e che frequentiamo per avvertirlo che quei particolari edifici sono utilizzati da organizzazioni umanitarie. Lo stesso vale per gli spostamenti: ogni movimento che facciamo all’interno della Striscia viene tracciato su una mappa e comunicato all’esercito israeliano, anche l’orario, per evitare di poter essere degli obiettivi anche a livello collaterale passando in zone dove possono esserci potenziali operazioni o bombardamenti. A livello logistico è assolutamente complicato muoversi e i costi sono molto alti. A Gaza il mercato è regolato da un’economia di guerra quindi i prezzi dei beni di prima necessità, difficili da reperire come la benzina, sono molto alti.
Per quanto riguarda la sicurezza, da due settimane a questa parte, non c’è stato un giorno nel quale non vi siano stati bombardamenti. Ci sono droni che pattugliano i cieli 24 ore al giorno. La valutazione che facciamo a livello di sicurezza tende a minimizzare i rischi ma non li azzera.
Siete arrivati nella Striscia da due settimane, per quello che ha potuto vedere con i suoi occhi fino ad ora, può descrivere le condizioni della popolazione gazawa?
Per entrare abbiamo attraversato, con un convoglio blindato, il valico israeliano di Kerem Shalom, l’unico ancora aperto per gli operatori umanitari e staff internazionali. Durante il viaggio per arrivare in un compound delle Nazioni Unite all’interno dell’area umanitaria di al-Mawasi, siamo passati in una zona di conflitto attivo e abbiamo visto totale distruzione, edifici collassati, strade non più praticabili al passaggio di autovetture, desolazione. Nell’area di al-Mawasi, (46 km²) che rappresenta poco più del 12% della totalità della Striscia di Gaza si concentrano due milioni di persone. Qui ci ha colpito l’alta densità con gente ovunque, alloggiate sotto tende leggere e strutture fatiscenti costruite dagli sfollati dal sud, dal nord, dalla parte ovest di Gaza. Praticamente non esiste uno spazio libero, non esiste privacy.
La gente vive in condizioni assolutamente disumane.
Mancano cibo e acqua, la malnutrizione continua ad aumentare. Il sistema fognario funziona parzialmente e spesso scarica nelle strade dove i bambini camminano a piedi nudi. Dal punto di vista sanitario sono condizioni che favoriscono l’insorgere e lo scoppio di possibili epidemie.
Qual è l’impatto della guerra sulla popolazione da un punto di vista psicologico, penso soprattutto a donne e bambini anziani?
La popolazione gazawa arriva da quasi 11 mesi di guerra. Durante i nostri sopralluoghi abbiamo parlato con famiglie e con persone che ci hanno raccontato come siano state sfollate dalle loro abitazioni anche una decina di volte. Per questo motivo hanno perso il lavoro, averi, proprietà. Non sanno se le loro case sono ancora in piedi o meno. Il sistema educativo è fermo. L’impatto psicologico è pesante e bisognerà fare molto lavoro anche sotto questo aspetto. Pensiamo ai bambini che crescono in questa situazione di indigenza, che non vanno a scuola, a che prospettive future potranno avere. Dare supporto psicologico non è un punto focale della nostra attività sul campo ma stiamo cercando di creare un coordinamento con altre organizzazioni che sono in grado di fornirlo.
A proposito di epidemie: domani, 1° settembre, partirà la campagna di vaccinazione contro la poliomielite. Hamas, Israele e Oms avrebbero già concordato delle pause umanitarie durante le quali somministrare i vaccini. Obiettivo è vaccinare 640mila bambini sotto i 10 anni a partire dal centro di Gaza, per poi proseguire nel sud e nel nord della Striscia…
Le Nazioni Unite, principalmente Unicef e Oms, in coordinamento con il ministero della Salute di Gaza e con le autorità israeliane sono riusciti a far entrare a Gaza migliaia di vaccini per la polio. Oggi all’ospedale Nasri a Khan Yunis si terrà una conferenza di tutti i partner che lavorano nel campo sanitario che sarà la base di lancio della campagna. Emergency per ora non ha ancora la clinica operativa però nel nostro pacchetto ci sono anche le vaccinazioni. Abbiamo dato la nostra disponibilità a vaccinare anche per la poliomielite.
La gente di Gaza crede alla possibilità di un accordo per un cessate il fuoco e per il rilascio degli ostaggi?
La gente è veramente stremata. Undici mesi in queste condizioni non sono pochi. I gazawi guardano con poca speranza al futuro e alla possibilità di una soluzione almeno nel breve periodo. Non dico che sia disinteressata ai negoziati perché sono un punto fondamentale, però guarda sempre con meno positività alla possibilità di un cessate il fuoco. La presenza sul terreno di tante organizzazioni che riescono ad essere operative, nonostante tutte le difficoltà, è un modo per dare un aiuto a queste persone, nel mare dei loro bisogni. Non dimentichiamo che qui a Gaza si continua a soffrire e a morire. La popolazione ha bisogno di respiro quindi spero che si riuscirà ad arrivare ad un cessate il fuoco e a una soluzione il prima possibile.