DIOCESI – Lectio delle Sorelle Clarisse del Monastero Santa Speranza di San Benedetto del Tronto.

Il profeta Isaia racconta di un popolo, Israele, sconfitto, costretto alla deportazione a Babilonia, esiliato che, ora, attraverso il deserto, riprende la via del ritorno verso la terra di Canaan. Non è una marcia trionfale: il profeta “vede” uomini e donne provati, debilitati, zoppi, ciechi, sordi, non tanto fisicamente quanto nello spirito, nell’anima.

Anche il Vangelo ci porta in terra straniera, pagana; è qui che incontriamo un sordomuto, una persona menomata, un povero, un uomo debole. Alcuni uomini lo presentano a Gesù «e lo pregarono di imporgli la mano. Gesù lo prese in disparte, lontano dalla folla, gli pose le dita negli orecchi e con la saliva gli toccò la lingua». Gesù tocca quest’uomo proprio nella sua debolezza, un gesto intimo, coinvolgente, un contatto fisico per cui proprio quel corpo che umanamente potrebbe sembrarci incompleto, diventa luogo santo di incontro con il Signore.

«Guardando quindi verso il cielo, emise un sospiro e gli disse. “Effatà”, cioè: “Apriti”». Apriti dalle tue chiusure, libera la bellezza e la potenzialità che sono in te, apriti agli altri e a Dio, anche con tutte le tue ferite.

C’è una Parola che irrompe negli orecchi e nel cuore di quest’uomo, una Parola di salvezza. Come una Parola di salvezza irrompe su quella sorta di processione di uomini schiacciati dalla vita che è il popolo di Israele: «Coraggio, non temete. Ecco il vostro Dio, giunge la vendetta, la ricompensa divina. Egli viene a salvarvi».

E cosa succede all’irrompere di questa Parola? Scrive Isaia: «Allora si apriranno gli occhi dei ciechi e si schiuderanno gli orecchi dei sordi. Allora lo zoppo salterà come un cervo, griderà di gioia la lingua del muto…».

E il nostro amico della Decapoli? «E subito gli si aprirono gli orecchi, si sciolse il nodo della sua lingua e parlava correttamente».

Proprio sulle nostre povertà, quelle povertà che non vorremmo avere, proprio su ciò che non amiamo di noi stessi, proprio su ciò che ci fa soffrire, proprio su tutto questo Dio si ferma e proprio questo tocca, perché possiamo alzarci da dove siamo e ricominciare a vivere.

Ricordiamo quanto ci dice, a questo proposito, l’apostolo Giacomo nella sua lettera: «Dio non ha forse scelto i poveri agli occhi del mondo, che sono ricchi nella fede ed eredi del Regno, promesso a quelli che lo amano?».

Facciamo attenzione…la predilezione per i poveri che ha Gesù non è una forma di riscatto a loro garantita per ripagarli dalle sofferenze vissute.

Il Signore, la sua Parola, non si scagliano contro la ricchezza in sé, le ricchezze non sono demonizzate ma viene sottolineato il rischio per un ricco, quello di mettere la fiducia unicamente nelle proprie ricchezze, di mettere la propria identità nei beni posseduti e non lasciar spazio ad altro.

In questo senso la povertà è privilegiata nel momento in cui è specchio di un’attesa che non è riposta nei propri mezzi o risorse né tanto meno nelle proprie possibilità economiche, ma nell’affidarsi a colui che è la fonte di ogni dono, un’attesa che è necessità, desiderio di essere colmati dalla presenza del Signore, che è abbandono in Dio, che è fiducia in Lui e non esclusivamente nei beni, nel potere, nel successo, nel proprio io.

La povertà evangelica allora non è un consiglio, non è un valore, è uno spazio, una dimensione della fede, della relazione con il Signore. Solo i poveri, infatti, sanno riconoscere il bisogno di salvezza e accogliere il Vangelo come buona notizia di salvezza. La povertà, in questo senso, è esigenza inscindibilmente connessa alla vocazione cristiana, che coinvolge la nostra responsabilità, la nostra libertà, la nostra creatività di uomini e donne alla sequela di Cristo.

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