DIOCESI – Lectio delle Sorelle Clarisse del Monastero Santa Speranza di San Benedetto del Tronto.
La Parola ascoltata domenica scorsa ci ha fatto capire una cosa: la passione e la morte che Gesù annuncia sono lo scoglio contro il quale si infrange la capacità di comprendere e accettare da parte dei discepoli la vita e la missione del loro Maestro.
La conferma ce l’abbiamo questa domenica. Gesù torna ancora una volta e con insistenza ad offrire loro un insegnamento sulla sua passione e resurrezione: «Il Figlio dell’uomo viene consegnato nelle mani degli uomini e lo uccideranno; ma, una volta ucciso, dopo tre giorni risorgerà».
Se la volta precedente è stata dura la risposta di Pietro, un Pietro, se vi ricordate, che arriva addirittura a rimproverare Gesù per le parole dette, oggi, la reazione dei discepoli è ancora più preoccupante. Scrive l’evangelista Marco: «Essi però non capivano queste parole e avevano timore di interrogarlo».
Più precisamente non vogliono comprendere, e questo perché l’insegnamento di Gesù non rientra proprio nel loro orizzonte mentale. E poi, hanno paura: sono così ripiegati su se stessi, quasi in un atteggiamento autoprotettivo, da rinunciare al loro privilegio di interrogare Gesù, di chiedergli spiegazioni, così come era già avvenuto in altri momenti di incomprensione.
Sembra quasi che abbiano paura, se dovessero interrogare Gesù, di trovarsi esposti alle dure esigenze che la sequela della croce comporta per la vita.
E’ Gesù stesso, però, che rompe ogni indugio: «Di che cosa stavate discutendo per la strada? Ed essi tacevano». Prima non osavano interrogarlo, ora non vogliono rispondere. Decisamente non riescono a comunicare bene con il loro Maestro, tanto che, per loro, risponde il narratore, l’evangelista Marco: «Per la strada infatti avevano discusso tra loro chi fosse il più grande».
Ecco quello che separa Gesù dai discepoli in crisi: sulla strada che porta il Signore all’estremo dono di sé sulla croce, essi si mostrano interessati unicamente alla gerarchia e al potere all’interno della comunità cristiana. I discepoli soccombono alla tentazione di possedere ed esercitare quella tipologia di potere che domina ed esclude. Non si tratta di una grandezza morale, infatti ma politica.
Gesù, pazientemente, ritorna a formarli, ribadendo che la vera grandezza consiste nell’umile servizio rivolto a tutti, senza esclusioni: «Se uno vuole essere il primo, sia l’ultimo di tutti e il servitore di tutti». E come i profeti antichi, Gesù non si accontenta di un principio generale, di un comandamento principale, ma compie un gesto: «E, preso un bambino, lo pose in mezzo a loro e, abbracciandolo, disse loro: “Chi accoglie uno solo di questi bambini nel mio nome, accoglie me; e chi accoglie me, non accoglie me, ma colui che mi ha mandato».
L’immagine del bambino, considerando quello che il bambino rappresenta nel contesto storico e culturale al tempo di Gesù, suscita l’idea di marginalità, di immaturità, di ignoranza. Gesù pone questa realtà insignificante al centro della comunità dei discepoli.
Per dire cosa? E’ servo di tutti colui che accoglie, che sa abbracciare chi non conta, chi si potrebbe tranquillamente trascurare. Nella comunità cristiana solo colui che sa accogliere i piccoli, i poveri, i peccatori, può tenere il primo posto perché è proprio l’accoglienza di un piccolo, il servizio esemplare, il criterio dell’azione, la misura della grandezza personale. E se lo si fa nel nome di Gesù, allora si accoglie Gesù, il più piccolo, il più povero, l’indifeso per eccellenza, e si accoglie anche Dio che l’ha mandato nel mondo.
E’ questa, come ci dice l’apostolo Giacomo, «la sapienza che viene dall’alto», una sapienza che è «pura, poi pacifica, mite, arrendevole, piena di misericordia e di buoni frutti, imparziale e sincera», la sola sapienza capace di fare della nostra vita e della vita delle nostre comunità un terreno disponibile perché venga seminato «un frutto di giustizia».
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