Sull’Alzheimer moltissimo è stato scoperto a cominciare dalle cause. Resta però ancora da raggiungere la terapia adatta a bloccare la progressione di una malattia che influenza all’inizio il linguaggio e la memoria e infine investe le funzioni basilari della persona. In occasione della Giornata mondiale dedicata alla patologia, guardare alla situazione in Italia consente di osservare un quadro in cui ancora sono tante le cose da fare. Secondo le stime riportate dall’ultimo rapporto Censis le persone affette da demenza sono nel nostro Paese un milione 200mila, di cui la metà è colpita proprio dall’Alzheimer. Meno del 50%, viene preso in carico dai centri specializzati. “Questo significa che ancora un’alta percentuale di persone non è seguita” in strutture specializzate, commenta al Sir il professor Camillo Marra, direttore della Clinica della Memoria della Fondazione Policlinico universitario agostino Gemelli Irccs di Roma e presidente della Associazione Sindem, aderente alla Società Italiana di Neurologia. Il professore rammenta come oggi sia nota la possibilità di posticipare l’esordio e la progressione della malattia controllando i fattori di rischio.
Professore, sono solo gli anziani a essere affetti da Alzheimer?
No, non solo anziani. La malattia può esordire fra i 50 e i 60 anni, anche se in forma rara. A questa età, in particolare, i fattori predisponenti sono quelli genetici.
L’incidenza della malattia aumenta progressivamente e si stima che è il 7% della popolazione generale dopo i 65 anni sia affetta da demenza.
Colpisce tutti indistintamente o ci sono differenze di genere?
Le donne hanno una predisposizione maggiore pari al doppio rispetto agli uomini di sviluppare la malattia di Alzheimer per una probabile effetto ormonale più evidente dopo la menopausa. L’origine è multifattoriale ma si è compreso che alla base vi sia un processo neuropatologico legato all’aggregazione di placche di beta-amiloide nel cervello che porta, a distanza di tempo, alla degenerazione neuronale.
È possibile prevenire e predire la malattia?
Sì, ma è meglio dire che è possibile posticiparla. Secondo il IV rapporto Censis sulla malattia di Alzheimer, in Italia meno del 50% dei pazienti dementi è seguito dai Centri specialistici per le demenze. Questo significa che
ancora un’alta percentuale di persone non è seguita in centri specialistici.
L’opinione diffusa vuole che la demenza sia un evento atteso e naturale, legato all’età. Questa considerazione è errata perché, se intercettata precocemente, e messe in atto attività di prevenzione e cura sintomatica è possibile posticipare gli aspetti più gravi e invalidanti della malattia.
Come si può intercettare precocemente?
Il medico di medicina generale può somministrare al paziente dei semplici test, in grado di identificare i soggetti a rischio di sviluppare demenza, con una percentuale di efficacia intorno all’80%. È il MMG in caso di sospetto può indirizzare il paziente presso i Centri specializzati, ovvero i Centri disturbi cognitivi e demenze, dove viene fatta una valutazione generale e le indagini per comprendere il tipo di demenza e il grado di severità.
La diagnosi tempestiva è importante per mettere in atto dei meccanismi di prevenzione e cure sintomatologiche. Inoltre, probabilmente, a breve, la diagnosi precoce sarà necessaria per accedere a prossime cure in grado rallentare la progressione del processo neuropatologico e permette di cambiare la storia della malattia.
Come si fa a comprendere l’esordio?
Oggi, accanto alle indagini di neuroimmagine, risonanza e Pet con Fdg, possiamo identificare dei biomarcatori di demenza e di Alzheimer studiabili in vivo. Adesso sappiamo che facendo un esame del liquor se ci sono alterazioni di alcune proteine, in particolare un abbassamento della Abeta 1-42 e un innalzamento della Phosfotau, possiamo identificare soggetti con disturbi cognitivi minimi ancora non dementi, con una forma prodromica, che probabilmente svilupperà una demenza. Su questo soggetto dobbiamo fare tutti gli interventi di prevenzione e terapia precoce.
A quali campanelli d’allarme bisogna dare ascolto?
I disturbi di memoria e la ripetizione delle stesse domande sono sintomi già indicativi di una patologia in stato avanzato.
Attualmente si sa che gli indicatori comportamentali sono più precoci e vanno dalla riduzione degli interessi al ritiro sociale fino a una minore attività extra domestica che viene spesso identificata come depressione ma che è in realtà una apatia cognitiva e una ridotta capacità di programmare le attività nuove. Altro indicatore precoce è il disturbo del linguaggio, con disturbi subdoli come la riduzione del vocabolario che meglio saranno esplorabili con le tecniche di intelligenza artificiale.
Fare prevenzione aiuta a rallentare la progressione?
Sappiamo che statisticamente, se si interviene con dei meccanismi di prevenzione, si può rallentare la progressione della malattia anche nei soggetti predisposti. Lo studio Interceptor, in corso in Italia, ha preso in esame vari biomarcatori di diagnosi di malattia di Alzheimer per esaminare quali siano i più efficaci e i meno costosi per identificare la patologia in fase precoce. Su 400 soggetti osservati, si è visto come il gruppo che svolgeva attività fisica, sebbene portatore di gene predisponente (APOE4), non sviluppasse la demenza nel corso dei tre anni successivi. Ciò ci dice che la prevenzione si può fare. Ed infatti,
secondo l’Istituto superiore di sanità, se tenessimo sotto controllo i 14 fattori di rischio suggeriti dalla letteratura scientifica, potremmo ridurre il rischio di sviluppare una demenza del 45% nella popolazione in cinque anni.
In America, la Food and drug admnistration ha approvato tre anticorpi monoclonali da assumere nella fase iniziale per ridurre la progressione. In Europa, l’Agenzia europea dei medicinali (Ema) non ha ancora dato il via libera, perché?
Gli anticorpi monoclonali sono i primi farmaci che potranno cambiare la storia clinica di malattia perché vanno a intervenire sui meccanismi della beta-amiloide che alla base del processo neurodegenerativo. Sono stati approvati negli Stati Uniti a fronte di un beneficio ancora modesto ma sensibile perché alcuni pazienti si sono stabilizzati. Il principale problema di questi farmaci è che il rapporto rischio-beneficio è ancora considerato poco vantaggioso dall’ente regolatorio europeo (Ema) a causa degli effetti emorragici collaterali. La recente decisione di bloccare la commercializzazione in Europa di Lecanemab è oggetto di un riesame perché in effetti il farmaco ha una efficacia nel bloccare la progressione nel 31% dei soggetti trattati. L’Ema ha bloccato l’autorizzazione perché il farmaco, nei pazienti portatori di un doppio allele epsilon4 dell’apolipoproteina E (ApoE), determina un forte rischio di emorragia cerebrale. Alla luce di questo, l’Agenzia non ha ancora concesso la commercializzazione. Il riesame della documentazione si avrà a novembre.
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