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Sport San Benedetto, intervista al ginnasta olimpionico Carlo Macchini: “Un campione non si vede dalla classifica”

SAN BENEDETTO DEL TRONTO – Molto legato a Fermo, la sua terra d’origine, si rivela al pubblico vincendo l’oro alla sbarra e il bronzo a squadre in occasione dello European Youth Olympic Festival di Utrecht 2013, primo evento della sua carriera in cui indossa la maglia dell’Italia Team. Con dedizione e costanza, ma soprattutto con il sorriso, porta avanti una carriera di alto livello all’insegna del motto dialettale “Ce divertemo” (n.d.r. “Ci divertiamo”) e ottiene numerosi riconoscimenti, tra i quali il risultato più prestigioso del suo percorso, la medaglia d’argento alla sbarra ai Campionati Europei di Antalya del 2023. Alle Olimpiadi di Parigi 2024 firma un pezzo di storia dello sport azzurro, portando la Nazionale Italiana alla finale olimpica e conseguendo il secondo miglior piazzamento a squadre di sempre.
Stiamo parlando del ginnasta Carlo Macchini, l’atleta marchigiano soprannominato “Bistecca“, che abbiamo incontrato a San Benedetto del Tronto, in occasione dell’open day organizzato dall’Associazione Sportiva Dilettantistica di Ginnastica “Ma.Mo.Ti”, diretta dalla prof.ssa Monica Brandimarte.

Quando e come è venuto a contatto con il mondo della ginnastica?
Ho iniziato molto presto, all’età di quattro anni, spinto da mia madre e mio padre. Ero un bambino molto vivace e i miei pensarono che, facendomi stancare in palestra, forse a casa sarei stato meno vivace. Non ha funzionato molto, ma almeno ho scoperto di avere talento in uno sport!

Quando ha compreso che quella passione potesse divenire il lavoro della vita?
Intorno ai 18 anni, quando ho scoperto che facevo questo sport non tanto per passare il tempo, ma per passione. Allora ho iniziato ad allenarmi per un progetto di lavoro specifico.

Quanti sacrifici ci sono dietro ad un campione?
Tanti. Man mano che si cresce di livello, è ovvio che aumentino le ore di allenamento. Attualmente io mi alleno 10 volte alla settimana.
Però, al di là del concetto di sacrificio, vorrei precisare che tutti possono diventare dei campioni. Un campione è una persona che mette il meglio delle sue risorse in quello che fa, il massimo delle sue potenzialità a servizio del suo lavoro o progetto.
Un campione non si vede dalla classifica, ma dall’impegno che mette nell’allenamento. C’è un vecchio detto che io ritengo molto vero: le medaglie si vincono in palestra durante gli allenamenti; in gara si vanno solo a ritirare.

Quali sono state le vittorie più belle?
La medaglia che mi sta più a cuore è quella che ho vinto a diciassette anni all’European Youth Olympic Festival, la prima gara internazionale a cui ho partecipato e nella quale ho vinto la medaglia d’oro nella sbarra. Ovviamente mi ero allenato molto ed ero andato lì con la speranza di fare un buon piazzamento. Ad una medaglia ci si punta sempre, ci si spera sempre, però non mi aspettavo di vincerla davvero. Ero sul tetto d’Europa e mi sembrava di stare in paradiso. L’anno dopo, invece, è stato uno dei più difficili della mia vita. Lì ho capito che i momenti belli bisogna assaporarli e goderseli, ma bisogna anche avere l’umiltà di capire che sono solo momenti e, come tali, non dureranno per sempre. Questo non significa che bisogna vivere con l’ansia che tutto finisca, ma con la consapevolezza che ci saranno alti e bassi: infatti, così come i momenti belli finiscono, anche quelli brutti prima o poi finiscono.
Un’altra gara, in cui ho ottenuto un posizionamento che io considero una vittoria, è quella del 2021, quando ai Campionati del Mondo sono arrivato quarto, ma con un punteggio uguale all’atleta che si è classificato terzo. Tutti mi dicevano: “Che sfiga! Sei arrivato quarto, nonostante lo stesso punteggio del terzo“. Io rispondevo: “Ma come che sfiga! Sono andato in Giappone, ho fatto un esercizio perfetto e sono il quarto più bravo al mondo. Forse è mancata la ciliegina sulla torta, ma ho ottenuto una buonissima torta!”. Spesso ci concentriamo su quello che ci manca e non su quello che abbiamo. Questo non è un bene. Un atleta, se vuole crescere, deve prima di tutto conoscere i suoi limiti, accettare quello che non dipende da lui o da lei e soprattutto apprezzare i risultati, che ottiene man mano che arrivano.

A volte, purtroppo, ci sono anche delle cadute, come quella di cui purtroppo è stato protagonista alle Olimpiadi di Parigi lo scorso mese, durante la gara a squadre. Come si affrontano quei momenti?
A voler analizzare bene la gara, la nostra squadra è arrivata sesta, un risultato di tutto rispetto per l’Italia che è riuscita a fare meglio solo molti anni fa, a Barcellona, posizionandosi quinta. Ma il problema è che personalmente ho fatto la peggiore prestazione della mia vita. Io ho saputo di partire per Parigi solo due settimane prima della partenza. Per essere convocati con un preavviso così breve, bisogna essere veramente bravi. In effetti mi ero preparato molto bene ed ero riuscito ad arrivare alle Olimpiadi, che rappresentano il sogno di ogni atleta: avevo perciò solo il desiderio di fare bene; non mi importava il piazzamento, come ho già spiegato prima, ma solo una buona prestazione; volevo andare lì a fare l’esercizio come sono in grado di farlo. Invece è successo l’imponderabile. Quando sono saltato per prendere la sbarra, che è alta 2,60 m dal tappeto, ho avuto dei crampi al polpaccio, che mi hanno completamente stravolto l’esercizio. Appena ho sentito i crampi, mi sono reso conto che ormai la mia gara era compromessa, ma ho voluto tentare ugualmente. Il dolore allora è aumentato e c’è stata la caduta. Un momento terribile. Però ho pensato che lo spirito olimpico dovesse essere onorato e ho proseguito l’esercizio fino alla fine. In quel gesto di rialzarmi, portare a termine la mia prestazione ed accettare quello che la vita in quel momento mi stava riservando, c’è la mia vittoria. Magari vi sembrerà strano, ma io credo di aver vinto, in qualche modo: quella infatti non è stata solo un’esperienza di sport, ma un’esperienza di vita e io l’ho superata. Quante volte ci impegniamo per un obiettivo, ma poi alla fine la vita decide che per qualche motivo non deve andare bene. In quei casi accettare la situazione, seppur ingiusta e crudele, è vero motivo di crescita.

Lo sport dunque è un gran maestro di vita: aiuta la socializzazione e la capacità di fare squadra; insegna il rispetto delle regole, dei compagni e degli avversari; insegna ad accettare le sconfitte e gli eventi che non si possono cambiare. Qual è la sua esperienza in merito?
Lo sport è tutto questo. È una meraviglia! In particolare il fatto di saper accettare le sconfitte a me personalmente ha fatto svoltare la carriera. Ma non dopo che erano avvenute, bensì prima. Accettare di poter fallire prima che avvenga il fallimento è il modo migliore per essere libero da ogni pressione, da ogni aspettativa. Una volta accettato il fallimento come possibilità, dopo averlo messo in conto, si è liberi di lavorare sodo, di mettercela tutta e di tentare di farcela. Se dovesse andar male, potrò dire di aver fatto comunque il massimo e di aver lavorato serenamente.

A proposito di serenità, quanto conta il supporto della famiglia per un atleta?
È importantissimo. Sono molto grato ai miei genitori, perché mi hanno sempre supportato. La cosa migliore che hanno fatto è che non mi hanno riempito di aspettative. Non hanno mai voluto che io diventassi un olimpionico né che facessi un altro lavoro. Hanno sempre appoggiato le mie scelte. C’è stato un momento in cui invece ho sentito molto il peso delle aspettative della società e mi sono sentito sopraffatto. Non studiavo, perché avevo appena terminato le Scuole Superiori e ancora non ero iscritto all’Università, non lavoravo perché mi allenavo, mi allenavo molto ma non ero forte, insomma mi sentivo di non avere un posto preciso nell’immaginario collettivo. Poi, ad un certo punto, mi sono detto: “Ma io posso smettere quando voglio. Se volessi finirla qui, potrei farlo. Ma io voglio smettere? No! Allora io sto facendo questo, perché lo voglio, non perché devo. Se lo voglio, non devo sentire alcun peso”. Allora quel muro alto che vedevo davanti a me, un po’ alla volta ho iniziato a scardinarlo. E guardando quell’ostacolo che mi sembrava così grande, dopo che l’ho superato, mi sono detto: Com’era piccolo!”. Questo succede un po’ con tutti gli ostacoli che ci si presentano nella vita: sembrano sempre più grandi di quello che sono realmente.

Lei è spesso ospite nelle scuole del territorio per incontrare i giovani studenti e rispondere alle loro domande. C’è un messaggio che vorrebbe dare ai nostri giovani lettori, sportivi e non?
Molto volentieri. Vorrei dire a ciascuno di avere il coraggio di prendersi le proprie responsabilità, perché, solo così, si può essere protagonisti della propria vita e fare di tutto per renderla un capolavoro!
Poi vorrei dire anche di credere in sé stessi e nelle proprie potenzialità, di essere ambiziosi, ma non ostinati. La differenza è sottile, ma molto importante.
Infine dico il mio solito motto, che ormai è diventato un programma di vita. Che il #CEDIVERTEMO# sia con tutti noi!

Carletta Di Blasio: