Alberto Baviera
“Resto convinto del fatto che Putin ha lanciato un durissimo attacco non solo ai poveri ucraini, ma all’Europa intera, perché l’Ue aveva detto in modo chiaro che intendeva ridurre la propria dipendenza energetica dalla Russia. Avevamo avviato con il Green deal un’accelerazione in questo ambito molto forte, in tre anni. Per chi ha il Pil completamente legato al prezzo del petrolio e al prezzo del gas è risultato inaccettabile l’annuncio di chi ha dichiarato di volersi affrancare anche gradualmente da quel mercato. E ha intrapreso questa strada per metterci in difficoltà”. Lo afferma Francesco Timpano, ordinario di Politica economica presso la Facoltà di Economia dell’Università Cattolica del Sacro Cuore, sede di Piacenza, facendo con il Sir il punto sulla questione energetica in Italia. Rispetto ai mesi che hanno seguito l’invasione russa dell’Ucraina lo scenario è cambiato. E se da un lato possiamo incamminarci con sufficiente serenità verso il prossimo inverno, dall’altro il dibattito politico ha recentemente offerto novità che possono cambiare l’approccio considerato il raffreddamento sull’attuazione del Green deal a livello europeo e il ritorno della prospettiva del nucleare in Italia.
Professor Timpano, rispetto a due anni fa i prezzi del comparto energetico si sono notevolmente raffreddati. Le strategie adottate hanno funzionato e ci possono garantire una certa serenità nell’affrontare il prossimo inverno?
Due anni fa eravamo di fronte fondamentalmente a due problemi. C’era la prospettiva di doverci affrancare in tempi rapidi dalla dipendenza dal gas russo; e dovevamo farlo con dei prezzi che, allora, erano molto elevati. In sostanza, da un lato avevamo la necessità di cambiare il sistema degli approvvigionamenti e dall’altro dovevamo fare i conti con un prezzo molto alto. Oggi siamo in una situazione diversa. In Europa, complessivamente, siamo passati da una dipendenza del gas importato dalla Russia del 45% a circa il 15% nel 2023. Nella sostituzione di approvvigionamenti da altri Paesi, è certamente aumentato il tasso di gas liquefatto, che ci permette di utilizzare i rigassificatori, con una crescita della quota delle importazioni degli Stati Uniti; inoltre, abbiamo incrementato la quota di importazione di gas dalla Norvegia, abbiamo fatto accordi con l’Azerbaigian e i Paesi del Nordafrica.
Abbiamo raggiunto i risultati odierni non solo modificando la composizione degli approvvigionamenti ma anche riducendo i consumi: in coincidenza con i prezzi alti, imprese e cittadini hanno ridotto la domanda e qualcuno anche aumentando la quota di rinnovabili che, nel mix energetico, hanno permesso di sostituire una quantità significativa di gas russo.
Complessivamente, quindi, le scelte fatte sono state efficaci?
Sicuramente si potevano fare più rinnovabili e più efficienza energetica. Ma, secondo me,
la ricetta che abbiamo applicato due anni fa ha funzionato. E i prezzi sono tornati sostanzialmente ai livelli pre-guerra, quindi siamo anche riusciti a riportarli in un’area di sostanziale fisiologia. Rimangono però alcuni problemi: per esempio, in Italia produrre energia costa più che in altri Paesi, quindi siamo meno competitivi.
E, in generale, a livello europeo siamo meno competitivi rispetto agli Stati Uniti per il costo della produzione di energia come messo in evidenza dal Piano Draghi. Però, la fase critica che si è presentata due anni fa l’abbiamo superata. Certo, ci è costato molto perché, al di là del “price cap” che di fatto non è mai stato applicato, abbiamo stipulato contratti particolarmente onerosi e abbiamo dovuto investire rapidamente in nuovi impianti. Detto questo, pur non volendo apparire eccessivamente ottimista, penso che ce la siamo cavata bene rispetto al quadro che si prospettava. E, dal punto di vista delle riserve di gas, per l’inverno queste in Europa sono di nuovo a 94-95%, quindi
siamo a livelli di assoluta tranquillità.
Superata la fase emergenziale, che cosa resta da fare adesso?
Nel medio-lungo periodo quello che ancora resta da fare è tantissimo. Il Green deal europeo prospetta un cambiamento proprio del paradigma produttivo. La mia impressione è che, purtroppo, da un grande patto per il rinnovamento del nostro sistema di produzione in tempi medio-lunghi sia diventata una questione di lotta politica in una prospettiva di breve-brevissimo periodo.
Aver fatto diventare il Green deal merce politica con le elezioni europee – e anche con quelle nazionali che si stanno susseguendo – nonostante il brillante risultato ottenuto dal piano “RePowerEu” nella crisi energetica e che è sotto gli occhi di tutti, metterlo in discussione scagliandosi chiaramente contro è preoccupante.
Poi, certo, alcuni singoli provvedimenti possono essere migliorati. Inoltre ci sono sicuramente alcune partite aperte nel breve periodo: come fare ad aumentare in modo significativo gli investimenti nell’energia rinnovabile, anche perché l’Europa nella sua totalità è da sempre povera di risorse energetiche proprie ed va evitato il più possibile di essere dipendente da qualcuno o da qualcosa. Per questo
non comprendo le critiche che si fanno spesso a Green deal e a RePowerEu, perché in fondo sono stati anche un’occasione per riscrivere i rapporti di forza – anche politici.
Se non ci fosse stata l’invasione russa dell’Ucraina probabilmente la transizione energetica l’avremmo fatta in modo meno traumatico. L’Europa per essere energeticamente un po’ meno dipendente da altri Paesi deve adottare nuove tecnologie, cambiare il suo modello di produzione e di consumo: il Green deal traccia questo tipo di percorso in un periodo lungo, non dall’oggi al domani.
Nei giorni scorsi il nuovo presidente di Confindustria, Emanuele Orsini, ha dichiarato che “non è possibile continuare a pagare l’energia fino al 40% in più della media europea” e ha chiesto un’accelerazione sul nuovo nucleare. Il nucleare può davvero ridurre il gap tra noi e gli altri Paesi Ue?
Penso che occorra guardare con realismo a questa tecnologia che abbiamo abbandonato per via di un referendum – il cui esito è comunque ancora in vigore; per cui andrà, in qualche modo, chiesto agli italiani se hanno cambiato idea rispetto al bando del nucleare in Italia. Ad oggi, non riusciamo neanche a metterci d’accordo per trovare un luogo dove mettere il deposito nazionale delle scorie nucleari, anche quelle che produciamo giornalmente negli ospedali dove si usa la medicina nucleare. Viste le difficoltà per un deposito, si figuri se riusciremo ad avere una centrale… A parte questo, tutti sanno che se anche decidessimo oggi di realizzare una centrale nucleare non è che sia pronta nel giro di pochi anni. Questo significa che parliamo di nucleare oggi per averlo, se ci sarà, nel 2035-2040. I problemi posti dai Green deal – dare un contributo significativo alla lotta al cambiamento climatico – ce li abbiamo oggi e le decisioni vanno prese oggi. Anche a livello europeo sulle centrali nucleari abbiamo un gap rispetto al resto del mondo. Quindi
spacciare il nucleare come la soluzione al problema non è realistico e non è serio.
Se dovessimo cominciare oggi magari tra una quindicina di anni potremmo avere il nucleare. Nel frattempo, però, abbiamo ora il problema di come ridurre la dipendenza dai combustibili fossili in costi ed aumentare l’elettrificazione del sistema in modo significativo. Per cui dobbiamo sicuramente affidarci alle rinnovabili, fare investimenti col Pnrr anche in nuove tecnologie. E, ovviamente, anche cambiare il modo di consumare…
Lei insegna alla Cattolica di Piacenza nel cui Campus a luglio è stata costituita una Comunità energetica rinnovabile. Queste realtà quanto possono aiutare nella transizione energetica?
È un’esperienza interessante. Alla Cer partecipa anche la Fondazione EduCatt che si occupa di servizi abitativi per gli studenti; contiamo di aprirla ovviamente anche ad altri soggetti del territorio. Le Comunità energetiche fanno parte di quel decentramento produttivo che rappresenta uno dei modi che viene suggerito per poter realizzare il processo di trasformazione del modello di produzione e consumo. Penso sia prematuro esprimersi circa l’impatto su larga scala che queste realtà potranno avere. Però, non c’è dubbio che sono uno degli strumenti di cui possiamo dotarci. Certamente tutte le difficoltà burocratiche che ancora ci sono relative alla costituzione delle Comunità energetiche dovrebbero essere rimosse; oggi, per quello che anche noi abbiamo visto concretamente,
ci sono ancora eccessivi ostacoli alla realizzazione di Cer.
Lo ripeto:
le Comunità energetiche – soprattutto in alcuni territori – possono essere uno strumento interessante per promuovere il decentramento produttivo e nuove forme di consumo più responsabile e condiviso appunto; realtà nelle quali le comunità hanno un loro ruolo e dove si combattono anche fenomeni della povertà energetica.
È ancora prematuro dire se questo strumento potrà darci una mano significativa su vasta scala nella produzione e consumo. Meritoriamente la Conferenza episcopale italiana sta dando una spinta formidabile su questo e io mi auguro che le Cer possano diffondersi. Ci vorrà del tempo, è un cambiamento profondo. A proposito, mi lasci dire un’ultima cosa…
Prego.
Stiamo trattando temi di lungo periodo con un approccio di breve periodo. E questo non va mai bene. Nel breve periodo si deve cercare di governare il processo di transizione, capire quando si devono introdurre gli strumenti che servono per agevolarlo. Aver trasformato un argomento strutturale – su cui dovremmo essere tutti d’accordo per poterlo far funzionare – in un argomento di lotta politica di breve periodo per vincere le elezioni ha evidentemente indotto produttori e consumatori ad avanzare dubbi circa investimenti in beni sui quali i decisori politici non sono più d’accordo o riaprono la discussione.