DIOCESI – Nato nel 1993 a Brugherio in Brianza, già durante l’adolescenza, intorno ai 17 anni, sente la vocazione; terminati gli studi classici, a soli 19 anni, decide di entrare in seminario; nel 2018, a 24 anni, viene ordinato presbitero, inizia il suo apostolato di prete presso la parrocchia di Busto Arsizio e diventa anche docente di religione. Costretto, a causa della pandemia, a stare lontano sia dai ragazzi dell’oratorio sia dai suoi studenti, decide di raggiungere i giovani attraverso i social, affrontando temi importanti, come la preghiera, l’educazione, l’amore, viste alla luce della fede. È così che don Alberto Ravagnani, oggi trentunenne, diviene in poco tempo uno youtuber e un influencer molto seguito. Fondatore anche dell’associazione “LabOratorium“ e della Community “Fraternità“, lo abbiamo incontrato in occasione dell’incontro avuto con i giovani delle due Diocesi del Piceno.
Cosa può fare la Chiesa per tornare ad essere bella nel senso etimologico del termine, ovvero capace di attrarre?
La Chiesa diventa più bella, nel momento in cui c’è il fuoco e diventa quindi un posto più caldo. La Chiesa, non a caso, nasce proprio quando il fuoco dello Spirito Santo scende sui discepoli, i quali iniziano a capirsi tra loro pur parlando lingue diverse e decidono di andare ad annunciare il Vangelo a tutto il mondo. Abbiamo quindi bisogno di esperienze calde in tal senso, familiari, energiche. I ragazzi hanno questo fuoco dentro e credo che, proprio attraverso i ragazzi, l’esperienza di Dio possa passare alla Chiesa. È chiaro che per fare questo hanno bisogno di spazio e di spazi, hanno bisogno di maggiori possibilità di sentirsi rappresentati dentro le celebrazioni, dentro gli eventi della Chiesa, nel modo di parlare della Chiesa.
La Chiesa, quindi, secondo me, diventa un posto più bello, là dove i ragazzi riescono a trovare spazio e a tirare fuori la scintilla che hanno dentro.
Durante l’incontro con i giovani delle Diocesi del Piceno, una ragazza ha detto: “Io mi sento sola, ma non nel senso che mi manchino le persone intorno, bensì nel senso che provo una solitudine esistenziale, come se non avessi nessuno con cui condividere i miei sentimenti più intimi. Cosa possiamo fare noi adulti per aiutare i giovani a costruire legami profondi o comunque a colmare questa loro solitudine?
Questa fame di senso è molto comune in tanti giovani. Noi adulti possiamo solo creare contesti in cui sia favorita la relazione vera. Se da una parte è giusto che i giovani imparino ad arrangiarsi in merito ad alcuni aspetti più concreti e pratici, dall’altra parte è anche innegabile che sia giusto intervenire su questioni che toccano invece la sfera più profonda della persona. Quando si è giovani, infatti, il dono di amici veri è preziosissimo e decisivo e, se questo non avviene in maniera naturale per i tanti motivi che conosciamo e che sono legati al sempre crescente individualismo e all’eredità lasciata dalla pandemia, è opportuno predisporre contesti in cui possano nascere o rafforzarsi legami profondi e di senso. Che siano gli oratori, le parrocchie, i gruppi non importa. L’importante è che siano luoghi in cui i ragazzi possano sentirsi veramente fratelli tra di loro, in cui possano sperimentare la fraternità vera, possano guardarsi gli uni gli altri con un certo tipo di sguardo. In contesti del genere il compito dell’adulto è come quello di un allenatore, che consiglia, corregge, incoraggia. Ma poi la partita in campo la devono giocare loro, i ragazzi!
Nonostante rispetto al passato ci siano molte più libertà, numerosi giovani lamentano il fatto di avere genitori asfissianti che li controllano in ogni ambito: nel contesto scolastico, durante le uscite, nella scelta dei progetti per il futuro. Cosa possiamo fare noi gli adulti per allentare la pressione che evidentemente mettiamo?
Per quanto riguarda il contesto scolastico, il controllo avviene soprattutto attraverso il registro elettronico, che indubbiamente aiuta dal punto di vista pratico a far girare le comunicazioni, ma che dal punto di vista pedagogico, onestamente, non credo aiuti i ragazzi ad essere liberi, a sviluppare il senso di responsabilità. Se infatti da un lato non consente di trasgredire, dall’altro toglie anche la possibilità di rendere conto di un’azione. Ma questo, come lei sottolineava poco fa, è solo uno dei tanti ambiti in cui il ragazzo oggi viene controllato. Un tempo negli spostamenti l’adulto si fidava di più; oggi, invece, avendo tutti il cellulare, i genitori inviano spesso messaggi per sapere dove siano i figli oppure seguono sui social le foto che postano o addirittura rilevano la posizione attraverso il gps. Una pressione diversa, ma forse ancora più gravosa, è quella legata alle aspettative che spesso i genitori ripongono sul profitto scolastico dei loro figli o addirittura sulla scelta degli studi o della professione da intraprendere.
Allora, pur comprendendo la buona fede e l’intenzione volta al bene che c’è dietro ad alcuni comportamenti degli adulti, il genitore deve ricordare sempre, sia sulle piccole cose che sulle grandi, che un figlio è una persona libera, che va aiutata ad essere sempre più libera. E il controllo quotidiano non aiuta neanche l’adulto a liberarsi dalla pretesa di poter controllare tutto. L’unico rimedio è capire che non possiamo avere il controllo della nostra esistenza e di quella degli altri e siamo chiamati a testimoniarlo ai nostri giovani, dando loro maggiore fiducia.
Lei con il gruppo dei giovani della Community “Fraternità” viaggia molto. Come vede i nostri giovani? Ci sono differenze a seconda dell’ubicazione delle parrocchie o delle regioni visitate? Hanno tutti le stesse opportunità in ambito spirituale?
Ci sono contesti, in genere meno cittadini e meno industrializzati, che sono anche economicamente più poveri, in cui i ragazzi hanno la possibilità di vivere in ambiti più semplici e genuini e sanno godersi di più quello che hanno. Questo è un bene. Però è anche vero che in genere in queste situazioni ci sono minori strutture e minori possibilità di aggregazione per loro. In altri contesti, come ad esempio a Milano, si trovano invece grandi oratori, molte strutture per fare sport, ma all’interno ci sono ragazzi che a volte non sanno raccontarsi i sentimenti, le paure e le aspettative che hanno dentro.
Nonostante queste differenze tra parrocchie e contesti, però, il cuore dei ragazzi è sempre lo stesso. E, quando si trovano davanti degli adulti credibili, una proposta vera e degli amici sinceri, i giovani di qualsiasi luogo, si uniscono.
Dopo essere stato lo scorso anno nella Diocesi di San Benedetto del Tronto – Ripatransone – Montalto, tre settimane fa è stato ospite della Diocesi di Ascoli Piceno. Come si è trovato nelle nostre comunità diocesane?
Lo scorso anno sono stato a Grottammare, proprio invitato dal vostro Giornale L’Ancora, in occasione del Meeting Nazionale dei Giornalisti. Quest’anno, invece, ho visitato la città di Ascoli Piceno, oltre che per assaggiare le buonissime olive ascolane, per cercare di curare un po’ le ferite di questo territorio. Ogni volta che mi sposto, ho l’opportunità di crescere, di contaminarmi, di incontrare qualcosa di buono per la mia vita. Perciò vi ringrazio, perché è stato così anche nelle vostre comunità.
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