Vincenzo Buonomo
È trascorso un anno da quando l’alluvione Al-Aqsa apriva una nuova fase del confronto tra Israele e Hamas. Quella del 7 ottobre 2023 non è stata un’azione terroristica isolata, ma un atto di guerra pianificato realizzato sul territorio dello Stato di Israele, per la prima volta dalla sua nascita. Guerra asimmetrica, poiché tra Stati e gruppi terroristici (Hamas è solo una delle sigle sul campo), ma pur sempre guerra, con vittime innocenti, continuato con la presa in ostaggio di cittadini israeliani che ha reso vano ogni tentativo di successiva mediazione.
Con la loro azione, contraddicendo le regole di guerra, i combattenti di Hamas hanno fatto dei civili un obiettivo militare, determinando la risposta israeliana con l’avvio di una rappresaglia. Azione che il diritto internazionale ben conosce, prescrive e regola, anzitutto attraverso il criterio della proporzionalità che è proprio della legittima difesa. Ma anche in questo caso la popolazione civile è stata trasformata in obiettivo militare, dimenticando il principio di distinzione che regola l’azione bellica.
Di fronte a questi fatti, se i fronti di guerra ci lasciano in attesa di chissà quali sviluppi, sono già evidenti le regole violate, le contraddizioni e i cambiamenti avvenuti. Basti pensare agli ostaggi: utilizzati come scudi umani e strumenti per ottenere chissà quali vantaggi, mentre il loro mancato rilascio vede la pressione dell’opinione pubblica israeliana sul governo, contrapponendo il senso di umanità alla ragione militare.
E poi è quasi del tutto distrutta la Striscia di Gaza, dove Hamas aveva costruito la sua realtà materiale, con oltre 40.000 morti. Il blocco delle vie d’uscita e gli aiuti di emergenza che faticano ad entrare, vedono i palestinesi poter solo intuire le indicazioni di corridoi umanitari che l’esercito occupante detta giornalmente, variandoli. Inoltre, nel mancato ordine che è proprio di ogni guerra, i coloni israeliani nella Cisgiordania ampliano la loro presenza di occupazione e con il sostegno della forza sottraggono ai palestinesi territori, affetti, legami. Quanto è lontano il preambolo dell’Accordo di Oslo del 1993 con cui israeliani e palestinesi concordavano “che è tempo di mettere fine a decenni di scontri e conflitti, di riconoscere i reciproci diritti legittimi e politici, e di sforzarsi di vivere nella coesistenza pacifica, nel mutuo rispetto e nella reciproca sicurezza”. Tutto è cancellato quanto ad autorità diverse dalla potenza e dalle armi, ai processi di riconciliazione, alle delimitazioni territoriali, alla cooperazione per una pace in grado di stabilizzare la regione mediorientale.
Nel frattempo i militari di Israele sono giunti a Beirut, entrando nello spazio sovrano di un altro Stato, quel Libano a cui sbrigativamente la terminologia internazionale ha destinato l’appellativo di “Stato fallito”, magari per evitare di dover definire aggressore e aggredito, come avvenuto con la dovuta chiarezza per l’Ucraina invasa dalla Russia. Nel Paese dei cedri, Israele mostra la volontà determinata di garantire i propri confini settentrionali colpendo le basi e poi i vertici di Hezbollah, attuatore nello scenario mediorientale degli interessi extraterritoriali iraniani. Un fatto che ha imposto al regime degli Ayatollah di fare la comparsa nel conflitto. E questo mentre un altro fronte, quello verso gli Houti dello Yemen, vede impegnata la forza militare israeliana, come testimonia il recente attacco alla città costiera yemenita di Hodeidah.
Di fronte a questo quadro diventa difficile, dopo un anno, pensare ancora alla rappresaglia garantita dal diritto internazionale dopo l’attacco del 7 ottobre 2023. I fatti, piuttosto, mostrano un desiderio di rivedere e di riscrivere gli assetti dell’area mediorientale, con decisioni ragionate e tra loro non isolate. Lo scenario, infatti, vede coinvolti non solo gli attori della regione, ma anche altri, ad iniziare da quelli che sembrano soltanto spettatori. In fondo nella divisione del mondo islamico tra sciiti e sunniti – che nelle reazioni arabe alla nascita dello Stato di Israele, nel 1948, non aveva l’evidenza di oggi – può essere un vantaggio che qualcuno, dal di fuori, operi in una conflittualità latente, ma non innocua, per stabilizzare l’area. Ad altri attori, poi, un arresto, pur momentaneo, di forze terroristiche e gruppi combattenti garantisce di poter gestire la loro situazione interna, tra elezioni e rapporti economici. Non mancano poi quei Paesi che utilizzano gli accadimenti del conflitto per ammantare crisi economiche e destrutturazioni degli assetti istituzionali.
Se questo operare e agire sembra il contenuto dell’ultima pagina di un libro, per lo scacchiere mediorientale, da secoli culla di vicende di respiro mondiale, è indice di un nuovo assetto già iniziato. E così, a meno di improbabili cambiamenti, l’idea di “due popoli, due Stati” è destinata ai manuali di storia diplomatica, con la conseguente diaspora palestinese. Che non sarà semplice per un popolo la cui identità, la storia, il desiderio di autodeterminazione è stato soffocato. A poca distanza geografica appare l’immagine dei Curdi vittime di un analogo destino.
Analogamente può dirsi tramontata l’esperienza libanese dove l’incontro tra espressioni religiose si traduceva in un assetto istituzionale unico che teneva insieme cristiani, musulmani e drusi, ma senza dimenticare il caleidoscopio delle differenze di fedi e pensieri lì presenti.
Per le comunità cristiane e le antiche chiese delle regione, con l’abbandono di territori iniziato da anni, le tendenze demografiche e gli equilibri geopolitici e religiosi, il rischio di scomparire è evidente. Un pericolo che si esprime nel destino di luoghi ed edifici che sono immagine di fede vissuta ed espressione identitaria, non patrimonio artistico.
Quello del 7 ottobre è un avvenimento che non solo ha modificato per l’ennesima volta la realtà di un’area da sempre nevralgica per le relazioni internazionali, ma soprattutto ha toccato la portata del diritto internazionale. L’umanizzazione della guerra, espressione paradossale, ma non priva di significato di fronte alla volontà di dare la parola unicamente alle armi, è un lontano ricordo. E se tutti i conflitti armati in atto dimostrano quanto siano divenute improponibili anche le regole minime della guerra, ad iniziare da quelle per la tutela della popolazione civile, in quello mediorientale questo aspetto è amplificato. Lì infatti l’intreccio tra ambizioni territoriali ed extraterritoriali, la presenza di attori molteplici e non convenzionali, il terrorismo e le sue strategie, le diversità religiose con i loro contrasti, assumono l’incubo di fattori aggravanti.
C’è da chiedersi come tutto questo trova eco nelle diplomazie dell’est e dell’ovest, del nord e del sud del mondo. Emblematica è stata nei giorni scorsi la particolare tribuna dell’Onu trasformata da luogo simbolo della sicurezza collettiva a palco per esternazioni della volontà di potenza nelle sue diverse declinazioni: militare, economica, politica, religiosa…. E così l’Assemblea Generale ha visto Capi di stato e di governo chiamati a discutere la Dichiarazione e Piano d’azione sul futuro, defilarsi dal tema e mostrarsi invece pronti a dare ancora più spazio ad un multilaterale degli interessi nazionali. Solo così si può definire un modo di intendere la diplomazia che se denuncia il mancato rispetto delle regole, non ha interesse ad opporsi alle violazioni o a pensare regole nuove. Tralasciando anche tutti gli strumenti elaborati e le istituzioni costituite negli anni.
Probabilmente è l’effetto di una generale attenzione a riscrivere ruoli e assetti territoriali, con l’illusione di garantire la sicurezza mediante la forza e la deterrenza delle armi, ignorando il desiderio di pace che sale da ogni latitudine.
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