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Libano: la vita quotidiana e le incertezze della gente, mentre avanza la guerra

(Foto AFP/SIR)

Di Maddalena Maltese

Nella notte, illuminata dalle bombe e stordita dal suono della distruzione, Marianne, ingegnere libanese e madre di quattro figli, si prepara a una nuova alba di domande. “Sei riuscita a dormire? Cosa è successo durante la notte?”. La giornata in questo quartiere cristiano di Beirut e nella casa di Marianne comincia così dal 24 settembre, dal giorno in cui il governo israeliano ha deciso di attaccare le milizie di Hezbollah nel sud del Libano, determinato a sradicarne i capi, così come ha cercato di fare con Hamas nella Striscia di Gaza. Il notiziario radio nella casa di Marianne riporta non i piani strategici della guerra ma lo strazio dei numeri: quello dei morti e quello dei feriti. A questi si aggiungono i numeri delle vittime collaterali: capre, mucche, pecore e i danni ai boschi. E poi arrivano i nomi dei villaggi e delle comunità e nella mente dell’ingegnere si materializzano le distanze e i tempi: 20 chilometri da casa, 45 chilometri; mezz’ora, 15 minuti. Tutto nel Libano è troppo piccolo, troppo vicino. “Colpita la periferia meridionale di Beirut”, recita il notiziario e Marianne sa che quelle distanze si coprono in poco più di dieci minuti in macchina.

Mentre arriva la corrente elettrica dal generatore solare di quartiere, impiantato tre anni fa quando iniziò la crisi dei combustibili, questa giovane mamma si prepara un caffè. Il suo momento in solitaria, prima che arrivino le altre domande dei figli: “Le scuole sono aperte? No”. E a seguire: “Possiamo uscire? Non oggi”. Infine: “Dobbiamo restare a casa?”. E davanti all’assenso di Marianne, parte la domanda più temuta: “Perché?”.

Come spieghi a bambini sotto i dieci anni le ragioni di una guerra che non risparmia neppure la loro innocenza? Come spieghi alle loro menti e ai loro occhi che bombe su bombe, costruite con gli ultimi ritrovati di quella tecnica che la mamma applica per altri lavori, stanno distruggendo parte del loro Paese? Come spieghi che l’Intelligenza Artificiale, a cui la mamma sta dedicando un dottorato di ricerca, sta dettando obiettivi e successi, incurante di morti e distruzione? Mentre l’intensità degli attacchi aumenta, altre domande si fanno strada. “Dov’è tuo fratello?”, chiede Marianne, al figlio minore. E lui di rimando: “A che ora atterra papà all’aeroporto dal viaggio di lavoro appena concluso?”. Sono giornate di domande quelle che attanagliano la vita di questa donna libanese, che insieme al marito sta lottando per resistere e per non partire ancora una volta. “Per andare dove?”, si domanda. La stessa domanda di tanti dei suoi vicini che restano per timore che le loro case vengano occupate da militari o da militanti e che una volta entrati da quella porta, potrebbero non uscirne più, come già accaduto a tanti palestinesi rifugiati nel Paese. “Dobbiamo fare i bagagli e andarcene? Lasciare solo la regione o lasciare il Paese? Che dire della scuola? Abbiamo appena comprato i libri. La piccola non ha ancora iniziato la prima classe”. I pensieri nella testa di Marianne si affollano mentre pensa che tutto è destinato a finire anche per il lavoro, anche per i dipendenti dell’azienda.

I razzi continuano a cadere, incuranti dei richiami internazionali, dell’estensione del conflitto, della reazione iraniana e delle nuove vittime che stavolta avranno nomi libanesi, ma che per il resto del mondo si tradurranno in affiliati di Hezbollah anche quando la realtà è ben altra. Mentre i bombardamenti proseguono il pensiero va ai nonni.

Va allo zio all’estero bombardato dalle notizie dell’ultim’ora dei media, con aggiornamenti costanti di numeri di morti e feriti. E poi arriva la conferma dal notiziario che ad essere bombardato questa volta è il villaggio di un amico. “Cosa gli sarà successo? Sarà ancora vivo? A chi toccherà la prossima volta?”.
Marianne spiega che la regione in cui vivono è per lo più cristiana, “anche se mescolata a centinaia di rifugiati musulmani siriani in ogni angolo frutto di una crisi che dura da oltre 10 anni”. Quest’area del Paese è considerata sicura, “ma non sai mai cosa le macchine da guerra e i droni stanno cercando”. I bambini non vanno a scuola. Le lezioni di tennis sono sospese. La vita fuori si è trasferita a casa, dove si gioca con il cane, si cucinano pancakes, si litiga e si fa pace, senza sapere quando la parola fine prevarrà sull’incertezza. E mentre i bambini la inseguono con le loro domande, Marianne cerca di sfuggire alla risposte, soprattutto quelle che dovrebbe al figlio maggiore. “Sta studiando diritti umani, ma ha capito subito che questi diritti non sono uguali per tutti i popoli e guarda al futuro del Paese e al suo con tanti interrogativi” a cui lei da madre non sa rispondere e deve arrendersi ad un “non lo so”. La fede invece fa dire a Marianne: “Dio ci guiderà. Ne sono sicura. Anche in questa tragedia presente come ha fatto in quelle passate” e comincia a recitare le suppliche sacre a Dio e alla Vergine Maria nella sua lingua, domandandosi ancora una volta se è da qui che arriva la sua fede. “È quella che ci da il potere di resistere anche quando non abbiamo niente, fiduciosi che il Male non avrà l’ultima parola e la giustizia di Dio prevarrà”, conclude questa giovane libanese, riprendendo una quotidianità dove si mescolano tristezza, furia, rabbia, confusione, speranza e ancora domande sul giorno della fine di questa ennesima guerra con Israele.

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