Salvatore D’Elia
Omar (nome di fantasia) è siriano, di Damasco. Da circa dieci anni si trova in Libano dove ha collaborato con diverse organizzazioni non governative che indagano e denunciano le violazioni dei diritti umani in Siria e in Libano. Accanto a lui, la sua compagna, palestinese, nata in Libano. Omar e la sua compagna sono due dei 51 rifugiati siriani, che risiedevano in alloggi precari a Beirut e Saida, nel sud del Libano, e nei campi profughi della Valle della Bekaa, zone interessate dalle operazioni militari nella guerra che ha colpito il Libano, e che sono arrivati oggi a Roma grazie ai Corridoi umanitari promossi dalla Comunità di Sant’Egidio, dalla Federazione delle Chiese evangeliche in Italia e dalla Tavola valdese, in accordo coi Ministeri dell’Interno e degli Esteri italiani.
Siriani in Libano. Nel volto di questi due giovani appena atterrati all’aeroporto di Fiumicino, tutto il dramma del Medio Oriente diventa ancora più tragico: due giovani, come tanti della loro età in ogni parte del mondo, che sognano di poter “vivere in pace” e avere futuro stabile. La storia di Omar è segnata dall’impegno sociale, dalla denuncia, da ‘una fame e sete di giustizia’ che spinge a mettere a repentaglio la propria vita per seminare speranza in una terra martoriata. Omar ha toccato con mano la realtà dei campi profughi siriani in Libano e, da attivista, ha lavorato per promuovere campagne di peace building.
“La situazione in Libano è andata sempre più peggiorando. Subito dopo l’uccisione di Nasrallah, leader di Hezbollah, molti siriani in Europa hanno festeggiato. E questo ha scatenato una durissima reazione contro i siriani in Libano”.
Omar, che ha collaborato anche con la Commissione internazionale indipendente d’inchiesta sulla Repubblica Araba Siriana, ha documentato con accurate inchieste le violazioni dei diritti umani sui prigionieri in Siria e Libano: “le donne e i bambini sono le prime vittime della violenza. Ho raccolto testimonianze di donne vittime di stupri, altre costrette a forme di prostituzione per poter ricevere cibo o beni fondamentali”.
Guardare al futuro. Mentre parla al Sir, Omar mostra sui polpacci e sulle gambe i segni dei colpi ricevuti a causa delle sue inchieste e denunce. “In Libano io e la mia famiglia siamo stati, e siamo tuttora, minacciati. Altri miei amici che collaborano con le organizzazioni non governative sono stati arrestati per le loro denunce”. L’attivista indica dietro le minacce e le violenze la ‘longa manus’ di personaggi riconducibili a Hezbollah che, spiega, “non sono presenti solo nella società civile, ma anche nel Parlamento. Tanti luoghi di detenzione in Libano sono, nei fatti, diretti da Hezbollah. Nel mio caso, hanno inventato di sana pianta le accuse per arrestarmi: hanno detto che ero legato a gruppi terroristici siriani, che possedevo armi e avevo colpito militari libanesi. Non era vero niente di tutto questo. Essi non vogliono che si conoscano le violazioni dei diritti umani”. Guardando al futuro, Omar ha un primo pensiero: potersi ricongiungere alla sua famiglia.
“Come ho detto, anche la mia famiglia – racconta – è minacciata a causa mia. Se non riusciremo a portarla qui in Italia, ritornerò in Libano dove – prosegue l’attivista –
tutto il lavoro fatto negli anni, per promuovere la cultura della tolleranza attraverso le campagne di peace building, oggi sembra inutile”.
“In Medio Oriente – aggiunge – si rischia sempre più di innescare una reazione di violenza e guerra a catena se i governi non matureranno una chiara consapevolezza politica. Occorre applicare le risoluzioni del Consiglio di sicurezza dell’Onu, molte delle quali oggi ancora non sono rispettate”. Il sogno di Omar per la sua Siria ha un nome: “democrazia”. Per sé stesso e la sua famiglia, il sogno si chiama pace: “Nel nostro Paese o in qualsiasi parte del mondo. Vogliamo vivere in pace”.