Bruno Desidera
Rappresentanti di 200 Governi, e circa diecimila partecipanti, sono in questi giorni a Cali, nel sudovest della Colombia, dove il 21 ottobre si è aperta la Cop16, la Conferenza mondiale sulla biodiversità. Una delle ultime occasioni per preservare l’inestimabile patrimonio culturale del pianeta viene vissuta in un Paese, e in una città dove le contraddizioni, in materia di rispetto del Creato, sono più evidenti. La Colombia è, infatti, uno scrigno ineguagliabile di biodiversità. Secondo i dati più aggiornati, il secondo Paese al mondo in rapporto alla sua estensione. L’unico del Continente dove esistono, in pratica, tutti gli ambienti naturali del Sudamerica: le Ande e l’Amazzonia, l’Atlantico e il Pacifico, il deserto, la savana e le grandi pianure, le isole caraibiche e i lunghi fiumi. Ma la Colombia è anche, e di gran lunga, il Paese più pericoloso al mondo per i difensori dell’ambiente: 73 omicidi nel 2023, il 40% di tutti quelli che avvengono nel pianeta. Sono coloro che lottano contro le miniere illegali, il narcotraffico, le monocolture, la deforestazione. Per la prima volta, il Sudamerica ospita un intervento mondiale sull’ambiente, in attesa della Conferenza sul clima del prossimo anno a Belém, in Brasile, e ciò avviene in una città simbolo della violenza colombiana. Proprio per questo, in Colombia la Cop16 è vista una grande occasione. Suscita speranze, delle quali si fanno portavoce sia la Chiesa che, più in generale, la società civile e i movimenti popolari. La Chiesa colombiana è presente in modo massiccio e partecipato alla Conferenza, nella zona verde, quella di libero accesso. Il programma prevede conferenze, forum, congressi, mostre e proiezioni di documentari, organizzati in particolare dall’Arcidiocesi di Cali, dalla Conferenza episcopale della Colombia, dal Consiglio episcopale dell’America Latina e dei Caraibi (Celam) e dalla Rete ecclesiale panamazzonica (Repam). Ma a Cali è presente anche una rappresentanza del Dicastero vaticano per il servizio allo Sviluppo umano integrale, oltre al nunzio apostolico, mons. Paolo Rudelli.
L’impegno della Chiesa. “La Chiesa colombiana, soprattutto negli ultimi anni, dopo l’enciclica Laudato si’, è stata sempre molto presente nella custodia del Creato. In vista di questa Cop16, prima si è tenuto un incontro in Amazzonia, e poi un convegno a Bogotá, promosso da vari organismi, tra cui la Conferenza episcopale colombiana (Cec) e il Consiglio episcopale latinoamericano (Celam)”. Lo spiega al Sir mons. Juan Carlos Barreto, presidente del Segretariato di pastorale sociale della Cec, e vescovo di Soacha, che aggiunge: “Il nostro apporto parte da una prospettiva di fede e di impegno etico. Al tempo stesso, vogliamo entrare in dialogo con gli esperti, gli scienziati, le altre religioni”. Se la Cop 16 rappresenta una grande occasione, la sfida, specifica il vescovo, è quella di “agire sugli stili di vita, su un’educazione specifica, sul rendere consapevoli le comunità, nei territori. Ci poniamo l’obiettivo, come Chiesa colombiana, di dare vita a comunità ecologiche nelle parrocchie, nelle associazioni, nei seminari, università, scuole. Inoltre, ai vari livelli ecclesiali saranno costituite delle Commissioni di ecologia integrale”. Certo, di fronte a questa prospettiva, non si può non essere consapevoli che, in Colombia, difendere l’ambiente è una attività rischiosa: “Le minacce all’ambiente e alle popolazioni sono tante, siamo chiamati ad aiutare le comunità, a far sentire la nostra voce. E siamo consapevoli che proprio i gruppi armati, con i loro interessi, sono i primi aggressori della biodiversità. Proprio per affrontare queste sfide, dobbiamo unirci, come colombiani”. Anche l’arcivescovo di Cali, mons. Luis Fernando Rodríguez Velásquez, in una nota, ha affermato, che “la Cop16 non può essere un evento isolato che si conclude il 1° novembre”. L’arcivescovo chiede, in particolare, di intensificare le iniziative pastorali che promuovono, tra l’altro, la cura dell’ambiente e la protezione della biodiversità”.
Un protocollo per proteggere i difensori dell’ambiente. Una voce, quella della “Chiesa di base”, che da Cali si sente molto bene. Juan Felipe Martínez, segretario esecutivo della Rete ecclesiale panamazzonica (Repam), conferma al Sir: “Siamo qui per un progetto a lungo raggio, il nostro impegno non può certo esaurirsi con la Cop 16. Vogliamo, come Repam, essere ascoltati a livello internazionale”. Soprattutto, “vogliamo portare un contributo nell’ottica dell’ecologia integrale. Bisogna essere consapevoli che gli attentati alla biodiversità sono connessi a quelli che toccano la popolazione, costretta a migrare, vittima di violenze e violazioni di diritti umani. Il ‘buen vivir’ delle comunità è collegato alla custodia del creato”. Da qui, una proposta concreta che viene lanciata proprio in questi giorni: “I leader ambientali, sono in pericolo. Per questo, è urgente stilare un protocollo per la loro protezione, in Colombia e non solo. Penso, ad esempio, alla recente uccisione, in Honduras, di Juan López, operatore pastorale e conosciuto difensore dei diritti umani e dell’ambiente”. A Cali è presente anche Leonardo Peláez, che fa parte del Segretariato di pastorale sociale: “C’è un grande fermento, con molti eventi, nella zona verde della Cop16. Vogliamo contribuire al buon risultato della Conferenza. I risultati delle precedenti non sono stati positivi, ma non è un buon motivo per demordere. Le aspettative sono molte, e coinvolgono in particolare le comunità più colpite dalle minacce alla biodiversità. Gli apporti dal basso sono molti, la gente vuole condividere le conoscenze e apprendere insieme. Lo abbiamo visto nei convegni che hanno preceduto la Cop 16, che si sono tenuti a Florencia, in zona amazzonica, e a Bogotá”.
Le minacce dei gruppi armati. Cali, però, in questi giorni, è anche una città blindata. In effetti, racconta Cristiano Morsolin, esperto di diritti umani, “c’è fibrillazione per le gravi minacce del comandante guerrigliero Iván Mordisco, capo della dissidenza Farc che ha rigettato gli accordi di pace del 2016, il quale ha annunciato attentati criminali durante questo summit. Nelle scorse settimane, c’è stata un’ingente operazione militare del Governo del presidente Gustavo Petro, nel canyon de Micay, con 1.400 forze speciali, blindati e elicotteri, nella zona principale di produzione della coca del dipartimento del Cauca, finora abbandonata dallo Stato”. Alla vigilia della Cop16, 500 ong e organizzazioni sociali hanno presentato il report “La strada del cambiamento: progressi e battute d’arresto per la pace, i diritti umani e la democrazia”, relativo al secondo anno del presidente progressista Petro, e “il testo testimonia il lento cambiamento in atto nella lotta contro povertà e diseguaglianze in Colombia – prosegue Morsolin -. Lo stesso report chiede riforme e cambiamenti più strutturali e incisivi”. Ma il rischio, più che mai, è che, una volta conclusa la conferenza, il massacro riprenda.