COLLI DEL TRONTO – «Ero andato lì per dare una mano, per dare qualcosa agli altri. Ed invece tornavo io a casa con un sentimento di pienezza mai sperimentato prima» – Sono queste le parole che, in occasione della 98° Giornata Missionaria, sono state pronunciate da don Mauro Servidei, parroco della comunità di Colli del Tronto, che ha vissuto una bella esperienza nella realtà dell’Operazione Mato Grosso. Lo abbiamo incontrato per farci raccontare la sua vocazione, i suoi viaggi e la storia di vita che lo ha condotto ad essere incardinato nella Diocesi di Ascoli Piceno.
Come’era la sua vita prima di divenire sacerdote?
Sono originario di Godo, una piccola frazione del comune di Russi in provincia di Ravenna, dove è stato parroco anche mons. Montevecchi, già vescovo della Diocesi di Ascoli Piceno. Vengo da una famiglia umile e semplice: mio padre faceva il muratore, mia madre l’operaia. Terminate le Scuole Medie, ho frequentato l’istituto Alberghiero e poi ho iniziato a lavorare come cuoco. All’epoca avevo l’hobby della fotografia e del legno. Mi è sempre piaciuto avere le mani indaffarate, sono sempre stato un tipo laborioso e lo sono tuttora.
Come è nata la sua vocazione?
Intorno ai trent’anni ho iniziato a farmi qualche domanda un po’ più seria sulla vita e ho ripreso a frequentare la parrocchia, che avevo abbandonato dopo la Cresima. Lì ho conosciuto un sacerdote, con cui è nata un’amicizia e che mi ha proposto di partecipare ad un campo di lavoro dell’Operazione Mato Grosso (OMG), un movimento fatto per lo più di giovani che, nel tempo libero, lavoravano per mantenere delle missioni in quattro stati dell’America Latina: Brasile, Bolivia, Ecuador e Perù. Sono rimasto subito molto affascinato da quella realtà per diversi motivi. Prima di tutto era molto pratica: poche parole e lavoro concreto per aiutare i poveri. Poi mi ha colpito molto l’aria di amicizia che si respirava, un’amicizia cresciuta soprattutto dietro l’ideale del lavorare insieme per i poveri. Infine sono rimasto affascinato anche dalla possibilità concreta di fare esperienza in missione: i ragazzi, che qui in Italia incontravo ai campi di lavoro, infatti, erano gli stessi che poi partivano in missione per una prima esperienza di 6 mesi. Vedere questi giovani ha suscitato in me il desiderio di farne anch’io esperienza. La missione poi ha cambiato tutto!
Sono andato per la prima volta in Ecuador nel 1995, quando stavo per compiere trentuno anni, e sono rimasto cinque mesi. Tornato in Italia, ho proseguito a lavorare come cuoco nella cucina dell’ospedale di Ravenna per alcuni mesi, ma il desiderio di tornare in missione era talmente forte, che l’anno successivo sono ripartito nuovamente e questa volta per un periodo di tempo più lungo, due anni, in cui sono stato, oltre che in Ecuador, anche in Perù. Qui è cambiato qualcosa: ero andato lì per aiutare gli altri e mi sono trovato io notevolmente arricchito. In questo cammino di ricerca e di scoperta è stato importante l’incontro con padre Ugo De Censi, il sacerdote salesiano che negli Anni 60 ha fondato il movimento dell’Operazione Mato Grosso. Questo prete, che ha vissuto la sua vita sempre stando in mezzo ai ragazzi, ha notato in me questo cambiamento e forse, prima ancora che me ne accorgessi io stesso, ha capito che il Signore stesse agendo nel mio cuore e mi ha proposto di entrare in seminario. Io, che ero da tempo alla ricerca di qualcosa che desse significato alla mia vita e compimento al mio agire, ho accettato.
Cosa era cambiato concretamente rispetto a prima?
Questa è una bella domanda, perché mi consente di dire che nelle vocazioni – o almeno nella mia non c’è una folgorazione improvvisa, ma un discernimento lento, a volte anche faticoso e combattuto, in cui poi alla fine ci si arrende al volere del Signore. Per me è stato così. Io, nella mia testa, ho sempre desiderato avere una famiglia e dei figli ed infatti ho avuto anche un paio di storie serie, delle ragazze, delle storie lunghe durate qualche anno. Anche quando sono andato per la prima volta in missione, mi sono detto: “Pensa come sarà bello, quando avrò la mia famiglia, poter vivere in missione!”. Ogni volta, ad ogni storia, però, mi accorgevo che c’era sempre qualcosa che mancava, ma questa sensazione la tenevo per me. Quando pensavo alla vita da prete, allontanavo quel pensiero, quasi ne avessi timore.
Poi sono successi due fatti che mi hanno molto colpito. Il primo, in Perù, mentre ero in missione: un prete, originario della mia zona, di Faenza, è stato ucciso. Il secondo qui in Italia: due ragazze con cui avevo iniziato i campi di lavoro e che quindi conoscevo bene, sono state violentate ed uccise mentre erano in vacanza qui alla Majella. Questi due episodi hanno fatto saltare in aria tutti i miei schemi, i miei progetti: mi hanno fatto comprendere che la vita è preziosa, che può terminare da un giorno all’altro e, pur riconoscendo di non sapere cosa fare della mia vita, ho sentito il desiderio di doverla regalare. Credo che padre Ugo abbia letto in me questo desiderio e mi abbia mostrato la strada per realizzarlo. È così che, nonostante tutta la mia fatica di vivere il mio rapporto con Dio, ho riscoperto che poteva essere quella la maniera giusta per donare la mia vita. Da allora fino ad oggi, di Dio sento più il bisogno che la presenza dentro di me. Il bisogno di cercarlo, per lasciare che sia Lui a guidare le scelte della mia vita. Da quel momento in poi ho sempre cercato di affidarmi a Lui.
Quando e dove è stato ordinato prete?
Sono entrato in Seminario nel 1998, mentre ero in missione in Perù. Tra l’altro si tratta di un seminario costruito dall’Operazione Mato Grosso proprio per rispondere al numero sempre crescente di vocazioni che giungevano dal Movimento. Dopo aver frequentato lì i primi due anni, sono rientrato in Italia con l’idea di tornare nella mia regione; padre Ugo, invece, mi ha proposto di venire nelle Marche, dove c’era il vescovo Montevecchi, originario dell’Emilia Romagna, che conosceva personalmente il fondatore e il progetto Mato Grosso e cercava qualche giovane presenza missionaria nel Piceno. Così sono arrivato nella Diocesi di Ascoli; successivamente è arrivato anche don Devis, che oggi è parroco della comunità di Pagliare del Tronto. Da seminarista sono stato mandato nella parrocchia Santa Maria della Pace ad Ancarano, dove sono stato rimasto fino all’ordinazione presbiterale avvenuta il 22 Maggio del 2004, poi anche come vicario parrocchiale e successivamente come parroco dopo la morte improvvisa di don Tommaso Monti. Se per trent’anni avevo sempre deciso con la mia testa cosa fare della mia vita, mi sono accorto che per regalarla dovevo affidarmi a qualcun altro: così è stato per entrare in seminario, venire nella Diocesi di Ascoli, decidere la data dell’ordinazione, diventare prete … Mi sembrava e continua a sembrarmi l’unica maniera per far sì che non sia io a guidare la mia vita, ma sperare che sia il Signore a farlo.
In quali altre parrocchie ha offerto il suo servizio pastorale?
Ad Ancarano sono rimasto fino al 2007, poi sono tornato in Ecuador per quattro anni e al termine del 2011 sono rientrato ad Ascoli. Poi il 28 Ottobre del 2012, quindi esattamente dodici anni fa, sono entrato a Colli del Tronto, nella parrocchia di Villa San Giuseppe. Poi nel 2020 si è aggiunta anche la parrocchia di Santa Felicita.
Nella sua vita è stato quasi sempre a contatto con sacerdoti anziani. Come ha vissuto la relazione con loro e cosa ha imparato da loro?
Mi sono trovato sempre bene con i sacerdoti con cui ho condiviso il cammino. Padre Ugo mi ha segnato profondamente e, sebbene avesse più di settant’anni quando l’ho conosciuto in missione, non ho mai avvertito una distanza con lui legata all’età: egli, infatti, è stato sempre circondato da giovani ed aveva una mente giovane, sempre alla ricerca di qualcosa di nuovo, sempre pieno di entusiasmo, sempre attivo e speranzoso nel futuro. Don Tommaso Monti ad Ancarano è sempre stato accogliente e anche con don Dante Talamonti, che qui a Colli è una celebrità, avendoci trascorso oltre 53 anni, sono sempre andato d’accordo. Vivere insieme è sempre faticoso, perché bisogna imparare a gestire tempi, spazi ed impegni, sapendo che si è in due e non da soli, ma non è certamente al livello di quello che succede tra marito e moglie! Non nascondo che richieda maggiore attenzione, sacrificio e pazienza, ma c’è anche tanta ricchezza, quindi è una fatica buona!
Come continua a sostenere l’Operazione Mato Grosso?
Le missioni dell’Operazione Mato Grosso non hanno lo scopo di sfornare preti, anzi il movimento nasce come realtà aconfessionale per sostenere i poveri e per aiutare i giovani a scoprire la loro vocazione. È chiaro che, tra le tante vocazioni, il dono di sé per gli altri è una declinazione dell’amore di Dio, quindi, se accompagnato da una formazione teologica e spirituale, può portare anche a delle vocazioni sacerdotali e monacali. Ma la priorità resta sempre quella di dare una risposta a tutti i giovani, non solo a coloro che poi scelgono di farsi preti o suore. Credo che anche nelle parrocchie la priorità debba essere data proprio ai ragazzi e ai giovani. Tornato dalla missione col desiderio di rimettermi in Diocesi ad Ascoli, ho avuto spesso una sensazione strana della vita cristiana qui in Italia, come fosse più spenta o addormentata; l’immagine è quella di qualcuno che arriva con delle brocche d’acqua per dissetare e nessuno ha sete. Come far crescere la sete di Dio? In parrocchia ho sempre desiderato di far nascere una realtà bella e sana per i ragazzi, per questo ho con me alcuni giovani che arrivano dal cammino dell’oratorio ispirato dall’OMG e che ha delle missioni proprie; questi mi aiutano nelle attività con il GREST, l’oratorio settimanale, il catechismo dei bambini, proposte di carità e di lavoro per i più grandi per collaborare con le missioni. Il mio desiderio più grande, infatti, in ogni parrocchia in cui mi sono trovato, è sempre stato quello di dare attenzione ai giovani, standoci insieme quando e finché potevo, oppure affidandoli a qualcuno che stesse con loro.
Oggi, per i ragazzi, e più in generale per tutti, la Chiesa è bella?
Io mi sono allontanato dalla parrocchia a quindici anni, perché non mi diceva nulla. Quando, quindici anni dopo sono tornato, quindi dopo i trent’anni, ho ritrovato tutto come era prima. Nulla era cambiato: non mi diceva nulla neanche dopo. Onestamente mi sento molto vicino a quei ragazzi che non sono interessati a venire qua, perché probabilmente, quando si parla di Chiesa, pensano a persone che fanno riunioni, assemblee, convegni, ma che poi nella vita pratica non sanno dare risposte concrete agli eventi della vita. I ragazzi si interrogano, ma non vengono da noi a chiederci nulla. È allora molto importante che andiamo noi da loro, che stiamo noi in mezzo ai ragazzi, a tutti, qualsiasi vocazione abbiano. La passione, infatti, si passa, si trasmette a chi è vicino. Quello che io lamento è che, da parroci, non si riesce a stare in mezzo ai ragazzi. È necessario, allora, da un lato individuare qualcuno che abbia la vocazione per stare in mezzo a loro e, dall’altro, avere un approccio nuovo, fatto di condivisione e di proposta, e non vecchio, fatto di imposizione o di linguaggi obsoleti che risultano incomprensibili. Se stai in mezzo ai giovani nel modo buono, se proponi iniziative che li interrogano, se parli il loro linguaggio, se hai verso di loro un’attenzione educativa, se parli anche con la tua vita, allora la Chiesa è bella. Altrimenti no.
In un mondo sempre più individualista, dunque, come si può insegnare a guardare all’altro?
L’individualismo ti fa guardare solo a te stesso, a stare bene tu, a non prenderti responsabilità nei confronti degli altri. L’oratorio serve a smontare tutto questo: da un lato ti fa stare insieme, ti fa giocare, ti fa divertire, ma dall’altro ti fa anche riflettere, ti fa fare anche qualcosa di utile per aiutare gli altri, e magari scoprire che camminare insieme e farlo con Gesù è molto meglio che farlo da soli. Ovviamente l’oratorio funziona, se hai i ragazzi. Se non hai i ragazzi, non ha senso parlare di oratorio. Una volta che hai i ragazzi all’oratorio, hai un’opportunità bellissima per vivere con loro quei valori a cui il Vangelo ti chiama.