(Foto ANSA/SIR)

“Non siamo una generazione che vuole la guerra, non vogliamo sperimentare tutti gli orrori e le storie che i nostri genitori ci hanno raccontato crescendo”. È forte e deciso il ‘no’ alla guerra di Daisy El Hajje, giovane donna libanese. La pensano come lei tanti suoi coetanei che, dice al Sir, “indipendentemente dalle loro idee, stanno tutti subendo le stesse conseguenze e stanno tutti perdendo il senso della normalità ogni giorno che passa”.

Daisy El Hajje (Foto Rondine)

Daisy è tra i giovani impegnati a portare avanti i progetti ideati nell’ambito dell’opera segno “Mediterraneo frontiera di pace, educazione e riconciliazione” (Med), nato dopo l’incontro di Bari “Mediterraneo frontiera di pace” del 2020 che la Cei, in collaborazione con Caritas Italiana, ha affidato a Rondine Cittadella della Pace, finanziandolo con i fondi dell’8×1000. A Beirut, da settimane sotto le bombe israeliane, Daisy porta avanti, da allora, il suo progetto “Corruption: enemy of freedom, peace and prosperity”, “Corruzione: nemica della libertà, della pace e della prosperità”. Ma oggi c’è un altro nemico da combattere: la guerra.

Come stanno vivendo i giovani libanesi la guerra tra Hezbollah e Israele?
I giovani libanesi stanno affrontando questa guerra in modo diverso. Alcuni che erano troppo giovani durante il conflitto del 2006 o sono semplicemente politicamente inattivi hanno difficoltà a capire cosa sta succedendo. Mentre i giovani politicamente attivi sono infuriati. Tutti stanno subendo le stesse conseguenze. Stanno perdendo il senso della normalità ogni giorno che passa. Offrirsi volontari per aiutare gli sfollati interni, trasferirsi con le loro famiglie se si trovano in aree pericolose, lavorare meno ore in alcuni settori a causa dell’impatto della guerra sulle aziende, controllare costantemente le notizie, preoccuparsi per gli amici e le persone care. Questo ha sostituito le normali attività dei giovani libanesi. Resta solo la speranza di addormentarsi senza il suono dei missili.

(Foto ANSA/SIR)

Quali sono le ripercussioni del conflitto sulla vita quotidiana dei giovani (e non) libanesi, mi riferisco a scuola, lavoro, vita sociale, già messa dura prova dalla crisi politica, economica e finanziaria?
La sofferenza dei giovani libanesi è iniziata a partire dalla rivolta del 2019, con la crisi bancaria, seguita dal Covid, proseguita con l’esplosione al porto di Beirut e adesso il conflitto. Questi fatti hanno spinto tantissimi giovani a emigrare in Europa o nel Golfo. Ciò ha influito sui legami poiché molti di loro se ne sono andati lasciandosi alle spalle amici e familiari. Le scuole, poi, hanno avuto difficoltà ad adattarsi al post-Covid e a stabilire le tasse scolastiche sulle condizioni delle famiglie che a malapena riescono a sbarcare il lunario. Quest’anno gli istituti scolastici hanno subito ritardi a causa del conflitto, mentre alcune scuole pubbliche attualmente fungono da rifugi. Per quanto riguarda l’occupazione, le opportunità di lavoro sono molto scarse e, a meno che l’azienda non abbia legami commerciali con l’estero, anche gli stipendi sono bassi.

C’è anche chi decide di restare, nonostante tutto, per aiutare il Paese?
Credo che la risposta più comune a questa domanda sia “Resto se i miei genitori rimangono, non posso andarmene ora”. Come ho detto all’inizio,

noi non siamo una generazione che vuole la guerra,

non vogliamo sperimentare tutti gli orrori vissuti dai nostri genitori. La guerra per noi è un’esperienza orribile. In questo momento, servire il paese significa più che altro stare con i nostri cari, assicurarsi che tutti siano al sicuro, assistere e fornire aiuto ogni volta che è possibile.

Quali spazi ci sono per chi sceglie di impegnarsi per un Libano rinnovato, libero dalla corruzione nei vari campi della società?
Le iniziative per lo sviluppo sociale, economico e ambientale sono implementate da diverse organizzazioni e da cittadini attivi in diversi settori del paese. Questa realtà, unita all’istruzione della gioventù libanese, crea giovani entusiasti disposti a lavorare sui problemi sociali del paese. Pertanto, in circostanze normali progetti come il mio sono accolti e supportati. Tuttavia, oggi i progetti di ‘sviluppo’ vengono sospesi per fare spazio alla gestione della crisi. Prioritario adesso è fornire rifugio agli sfollati piuttosto che educare i giovani sulla corruzione e i suoi pericoli.

(Foto D. El Hajje)

Come sta andando il progetto contro la corruzione portato avanti nell’ambito dell’opera segno “Mediterraneo frontiera di pace, educazione e riconciliazione”?
Abbiamo raggiunto un livello di impatto soddisfacente, come testimoniato dai giovani che hanno seguito i miei seminari.

La corruzione ha contribuito allo stato attuale del Paese. A parte il conflitto, il settore pubblico soffre da molto tempo a causa della corruzione.

Lo scopo principale del nostro progetto è sensibilizzare i giovani sull’argomento e formare una gioventù attiva, interessata e pronta a prendere parte a progetti e iniziative di sviluppo sociale. Quando la tempesta si placherà, il lavoro sulla corruzione riprenderà. La riforma è necessaria e inevitabile e, quando arriverà quel momento, il nostro progetto avrà molto da fare.

Di cosa ha bisogno il Libano oggi per uscire da questa grave situazione?
In Libano uno dei nostri problemi più profondi è la mancanza di senso di appartenenza. Apparteniamo in primis alla nostra setta o fazione e forse, solo dopo, alla nostra nazione. È fondamentale per i giovani libanesi, i politici, i membri della società civile e ogni individuo che ricopre un ruolo attivo nella struttura del paese iniziare a mettere il Libano al primo posto. Ciò che intendo dire è iniziare a imparare come appartenere al Paese.

Non possiamo pensare di appartenere a un Paese di cui a malapena conosciamo la storia. Dobbiamo capire meglio la nostra storia, immergerci più a fondo nella nostra cultura, saperne di più sui nostri problemi per cercare soluzioni.

Sono fermamente convinta che i grandi cambiamenti iniziano nel piccolo. Non possiamo immaginare un futuro luminoso per il Libano finché il suo popolo è diviso sulla sua storia.

A questo riguardo, che ruolo possono avere i leader religiosi libanesi e la comunità internazionale per aiutare il Libano?
In tempi così delicati, il rischio di conflitti interni è alto. L’aspetto multireligioso del Libano può portare a problemi se non gestito correttamente. Gli sfollati interni e le comunità ospitanti appartengono alle diverse religioni e fazioni presenti nel paese e, in tempi così disastrosi, la sensibilità su tali argomenti è alta. Alla luce di questa realtà, i leader religiosi dovrebbero sottolineare l’importanza della tolleranza e della coesistenza. Dovrebbero condannare pubblicamente qualsiasi atto di violenza basato sulle differenze religiose.

I leader religiosi in Libano sono rispettati e spesso le loro azioni sono sottoposte a un attento esame. Pertanto, mentre predicano la coesistenza, devono anche agire di conseguenza fornendo assistenza a chi ne ha bisogno, indipendentemente dalla  provenienza e rivolgendosi ai leader di altre fede ogni volta che la situazione lo richiede.

E la comunità internazionale invece?
La comunità internazionale deve ricorrere a tutti i mezzi diplomatici per porre fine a questo conflitto che potrebbe portare a una guerra regionale. Se la diplomazia fallisce ora e se tutte le leggi e le regole internazionali non vengono rispettate, la comunità internazionale perderà gran parte della sua credibilità.

Oggi abbiamo prove tangibili di tutte le violazioni dei diritti umani in atto,

la stampa e le Ong stanno raccontando le atrocità commesse. Condannare questi crimini, fornire aiuti, fare pressione sulle parti coinvolte per una de-escalation riscatterà il potere delle leggi e delle regole internazionali che abbiamo creato proprio per evitare simili azioni.

Libano (Foto ANSA/SIR)

Quale futuro vede per il Libano?
Io amo il mio paese. Amo il mio paese come molti di noi, amiamo la nostra natura, la nostra vita sociale e la nostra cultura orientata alla famiglia, le nostre numerose tradizioni, la nostra cucina. Questo amore si traduce in azione e, anche se oggi siamo costretti ad andarcene e a cercare migliori opportunità all’estero, avremo sempre un motivo forte per tornare. Pertanto, vedrò sempre un futuro luminoso per il mio paese; vedrò giovani istruiti e resilienti tornare e ricostruire il paese e crescere le nostre famiglie qui. Abbiamo ciò che serve per ricostruire il paese e

siamo riusciti a far risorgere il Libano dalle sue ceneri molte, molte volte.

Dopo l’esplosione di Beirut, la gente era in strada a raccogliere i vetri rotti dall’esplosione. Questo simboleggia la nostra forza: ricostruiremo sempre con le nostre mani, con il nostro cervello e con le nostre capacità. Senza dubbio ricostruiremo un paese che riflette noi e i nostri valori. L’hanno fatto i miei nonni, l’hanno fatto i miei genitori e lo farò anch’io quando arriverà il momento.

Entra a far parte della Community de L'Ancora (clicca qui) attraverso la quale potrai ricevere le notizie più importanti ed essere aggiornati, in tempo reale, sui prossimi appuntamenti che ti aspettano in Diocesi.

0 commenti

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *