SAN BENEDETTO DEL TRONTO – L’umanità dei Santi, la loro vulnerabilità e la loro forza; l’invito delle beatitudini alla santità, quindi alla conversione; la ricompensa nel Regno di Dio che inizia già quaggiù, su questa terra; la comune condizione di tutte le creature umane di essere esploratori di senso, mendicanti di infinito, cercatori di bellezza; il significato dell’altare e la comunione con i Santi.
Sono stati questi i temi – cruciali e profondamente coinvolgenti – toccati da mons. Gianpiero Palmieri, vescovo delle due Diocesi del Piceno, durante l’omelia della funzione delle ore 18:00 da lui presieduta ieri, 1 Novembre 2024, presso la Cattedrale Santa Maria della Marina in San Benedetto del Tronto. La Messa, animata dalla Corale “Padre Domenico Stella“ diretta dal M° Massimo Malavolta, è stata concelebrata da don Patrizio Spina, parroco della comunità e vicario generale della Diocesi Truentina, da mons. Romualdo Scarponi e don Luciano Paci, parroci emeriti della stessa comunità parrocchiale, dai diaconi Walter Gandolfi, Pietro Mazzocchi ed Emanuele Imbrescia, dal candidato al diaconato permanente Stefano Raffaeli, dai giovani ministranti e da tutto il popolo di Dio riunito.
Una santità a portata di mano
«Questa sera non ci sentiamo soli – ha detto mons. Palmieri –. Forse ci sono dei momenti della vita in cui ci sentiamo soli, soprattutto quando ci rendiamo conto che le esigenze del Vangelo ci mettono in condizione di essere un po’ come controcorrente rispetto al mondo. In quei casi ci sembra davvero che la vita cristiana sia un’impresa titanica, qualcosa che è al di là delle nostre stesse possibilità. Invece, è davvero bello ascoltare la vita dei Santi, perché noi ci rendiamo conto benissimo che la loro condizione umana era vulnerabile come la nostra. Può darsi che qualche agiografia devota ce li faccia sentire troppo perfetti e quindi irraggiungibili, ma, quando la loro biografia è fatta bene e non è solo devota, non nasconde le debolezze, i momenti di incertezza e di paura. Questo da un lato ci fa sentire la loro profonda umanità, l’umanità dei Santi. Eppure, nel leggere la loro storia, nell’ascoltare le vicende della loro vita, noi intuiamo anche che c’è dentro una pienezza, una bellezza che risplende in gesti e in parole che sanno di eroico e che, allo stesso tempo, dicono di una bellezza donata da Dio. Una bellezza quindi a portata di mano, che non è un merito umano, non è qualcosa che si è conquistato solo con le proprie forze, bensì qualcosa che è donata da Dio, il quale, al tempo stesso, ha trovato un cuore aperto, una persona disponibile a farsi toccare il cuore, un cuore aperto e disponibile a farsi venire incontro dalla misericordia di Dio. Quando scopriamo questo, allora diciamo: “Magari l’avessi vissuta anch’io nella mia vita questa situazione. Invece di andare avanti con le mie forze, invece di giurare vendetta a chi mi ha fatto del male, avessi avuto anch’io la possibilità di farmi piccolo per accogliere la Grazia del Signore. Allora la mia vita sarebbe cambiata, come è cambiata la vita di questo Santo, di questa Santa!”».
Chiamati a rimanere piccoli: poveri in spirito e aperti alla voce di Dio
Il vescovo Gianpiero ha poi proseguito la sua omelia, spiegando il Vangelo del giorno (Mt 5,1.12a) e quindi il significato delle beatitudini: «Se possibile, leggiamo le beatitudini dividendole in due parti.
La prima parte di ogni beatitudine contiene un invito alla conversione, un invito a rimanere piccoli. Ovviamente a rimanere piccoli nel senso di Dio, cioè a non essere una persona che pensa di capire tutto, che pensa di essere capace di fare tutto, che non deve chiedere mai aiuto, che ha un io troppo egocentrico, un io troppo orgoglioso, perché solo la condizione di chi è povero, permette di essere disponibile allo Spirito. I poveri in spirito nella Bibbia sono quelli che non hanno la pretesa di essere qualcuno, bensì vivono aperti e disponibili alla voce di Dio. Beati, ad esempio, coloro che sono afflitti, perché provano nel cuore un profondo dolore, in quanto il mondo non è ancora pienamente il Regno di Dio. Beati i miti, che sono quelli che hanno rinunciato alla logica della violenza. Beati quelli che sono affamati di giustizia, misericordiosi, puri – e non doppi – di cuore, quelli che cercano la pace e sono perseguitati dalla giustizia.
Tutte quelle cose, che abbiamo ascoltato nel Vangelo e che ci dicono di farci piccoli nella nostra vita per accogliere il dono di Dio, parlano anche di una rinuncia. Una rinuncia che non è facile, che è costosa, ma che trova la propria ricompensa».
Capaci di leggere il frutto della rinuncia, di vedere la bellezza della ricompensa
«La seconda parte di ogni beatitudine – ha proseguito mons. Palmieri – ci spiega dove sia la ricompensa di questa rinuncia, spesso faticosa. Chi vive da povero, da povero nello spirito, comprenderà che fa parte del Regno di Dio e che soltanto chi si fa piccolo vi entra, come il cammello che deve passare per la cruna dell’ago. Sono tutti coloro che si rendono conto che il Regno di Dio viene, viene continuamente e solo i cuori aperti lo coglieranno. Invece chi piange guardandosi continuamente l’ombelico, chi non supera mai la fase del lamento, è troppo preoccupato a piangere su se stesso e non coglie l’opera di Dio che misteriosamente agisce per noi. Il mite, ad esempio, sperimenterà che è proprio lui ad ereditatare la terra. Non so se avete notato che chi bombarda, chi distrugge, chi usa la violenza, si troverà contro esattamente il movimento opposto. Questo ci dice la storia umana: chi pensa di distruggere un popolo, sta coltivando il terrorismo di domani; invece chi ha a cuore l’uomo, chi cerca la pace, chi è mite, sperimenterà di essere figlio di Dio, del Dio della pace. Dunque, soltanto chi soffre ed è capace di leggere il frutto della persecuzione, vivrà questa esperienza. Soffre sempre chi cerca la verità, la bellezza, la bontà, la giustizia, la gentilezza, l’altruismo. Però, soltanto chi soffre la persecuzione, scoprirà che niente vale la pena di non vivere così, di vivere secondo una logica diversa da quella del Vangelo. Perché è troppo importante, è troppo bello, è troppo grande vivere così! E anche se ti tocca soffrire, vale la pena.
Questa è la beatitudine dei Santi, ovvero di coloro che si lasciano guidare dallo Spirito Santo che è dentro di loro. Coloro che si fanno plasmare il cuore dalla Parola di Dio. Coloro che vivono la rinuncia, un po’ faticosa all’inizio, ma sempre più convinta man mano che si va avanti nel cammino cristiano. Coloro che sperimentano il lieto fine che Dio dà loro. La seconda parte delle beatitudine, dunque, è il dono di Dio, è quello che il Signore ci dona nel momento in cui davvero prendiamo sul serio il cammino della santità».
Invitati ad essere esploratori di senso, mendicanti di infinito, cercatori di bellezza
Ha poi concluso il prelato: «La nostra vita quaggiù è sempre davvero un cammino. Anche fino all’ultimo momento, all’ultimo respiro della nostra vita, noi siamo esploratori di senso, di infinito, cercatori di bellezza. Non ci accontentiamo. Non ci piace tirare a campare. Siamo sempre in cerca affannosa – e qualche volta affannati – di qualcosa di più grande. Così la vita vale la pena di essere vissuta! Siamo pellegrini e stranieri in questo mondo, in una condizione di mendicanti di infinito, alla ricerca di una bellezza che quaggiù assaggiamo, ma che troverà compimento lassù. Che prospettiva bellissima! Come è bella la vita dei discepoli di Gesù! E come è grande il lieto fine che li aspetta!».
Il significato dell’altare e la comunione dei Santi
Accingendosi quindi a vivere l’Eucaristia, il vescovo Gianpiero ha spiegato come l’altare di ogni chiesa richiami entrambi questi aspetti della vita di ogni cristiano: da un lato il sacrificio a cui è chiamato e dall’altro la ricompensa che lo aspetta. «L’altare deve ricordare due cose – ha detto –. La prima è l’ara del sacrificio, che noi sappiamo essere la croce di Gesù. Ecco perché di fianco all’altare si mette sempre il crocifisso: Gesù, infatti, non offre vittime, ma offre se stesso, è Lui il vero sacrificio a Dio e per i fratelli. Ma allo stesso tempo l’altare deve ricordare il banchetto del Cielo: ecco perché è ricco di candele, di fiori e anche la tovaglia è impreziosita da fiori. Ecco allora l’altro significato dell’altare: quel banchetto a cui tutti gli uomini sono chiamati, il banchetto che Gesù ha tanto desiderato. Ricordate che Gesù, nell’ultima cena, prende il pane e il vino e dice: “Ho desiderato ardentemente di mangiare questa Pasqua con voi, prima della mia passione, poiché vi dico: non la mangerò più, finché essa non si compia nel regno di Dio” (Lc 22, 15-16). Tutte le volte che celebriamo l’Eucaristia, noi celebriamo quel banchetto del Cielo e intorno a noi ci sono tutti i Santi. Qualche statua e qualche icona lo ricordano, ma non solo: intorno a noi ci sono tutti i nostri fratelli e le nostre sorelle defunti, sia quelli che già vivono pienamente in Dio sia quelli che attendono la più totale purificazione per incontrarLo. Sono qui in mezzo a noi, partecipano alla stessa Eucaristia, spezzano il pane con noi, entrano in contatto con noi. C’è chi per entrare in contatto con i morti, si rivolge ai medium. Quanta gente, per poter parlare con un parente defunto, viene ingannata! Non ce n’è bisogno. Tutte le volte che celebriamo l’Eucaristia, abbiamo già tutti, tutti i Santi, tutti i nostri fratelli e le nostre sorelle defunti, accanto a noi. In comunione con Dio, nello stesso Pane Eucaristico, nello stesso Vino Eucaristico, c’è la vita di tutti e noi siamo in comunione con Dio. Per questo il regalo più bello che possiamo fare per i nostri defunti è celebrare l’Eucaristia: in quel momento, noi siamo una sola cosa con loro».
La preghiera per essere santi
Al termine dell’omelia, mons. Palmieri ha invitato tutti i presenti a pregare per diventare santi: «Chiediamo allora al Signore: “In questa festività di “Tutti i Santi” e in tutti i giorni della mia vita, Signore, non lasciarmi scoraggiare. La mia vita è un cammino, fatto di cadute e di un rialzarsi in piedi, fatto in compagnia dei Santi e in Tua compagnia. Non lasciare che conti solo su di me, sui miei umori, sui miei desideri per cercare la felicità. Fammi invece affidare a Te, anche se talvolta questo significa convertirmi ancora di più, profondamente. Fammi sperimentare la Tua misericordia, la bellezza di essere Tuo figlio, di vedere la Tua presenza nel mondo, di sentire la Tua consolazione. Fammi sentire tutto questo, Signore, cosicché non mi scoraggi!”».