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Ascoli Piceno, a tu per tu con il giovane Giovanni Rossi in vista dell’ordinazione diaconale

DIOCESI – Domenica 10 Novembre 2024, alle ore 18:00, presso la chiesa San Pietro Martire in Ascoli Piceno, il giovane Giovanni Rossi riceverà l’ordinazione diaconale per l’imposizione delle mani e di preghiera consacratoria del vescovo delle Diocesi del Piceno, mons. Gianpiero Palmieri.

Giovanni, che ha ventotto anni ed è di Ascoli Piceno, è quinto di otto figli. Ha frequentato l’Istituto Alberghiero “Celso Ulpiani” del capoluogo piceno e proprio negli anni di studio superiore, non ancora maggiorenne, ha sentito un forte desiderio di donare la sua vita al Signore. Appena diplomato, ha iniziato l’anno propedeutico – un periodo di discernimento nel quale si verifica la possibilità di dedicare la propria vita a Dio e agli altri nella via del sacerdozio ministeriale – entrando poi nel 2016 come seminarista al Seminario Redemptoris Mater. Dopo il rito di ammissione agli Ordini Sacri, avvenuto il 2 Febbraio del 2018, ha ricevuto il Lettorato nel 2019 e l’Accolitato nel 2020. Terminati gli Studi Teologici nel 2021, è stato in missione in diverse zone del mondo: Israele, Australia, Papua Nuova Guinea, Malta. Da pochi mesi sta effettuando il suo tirocinio pastorale in alcune parrocchie locali: in estate nella comunità di San Marcello ad Ascoli Piceno e da un mese nella comunità di San Filippo Neri a San Benedetto del Tronto.
Lo abbiamo incontrato per conoscerlo meglio.

A quale parrocchia appartiene?
Da un punto di vista territoriale appartengo alla parrocchia di San Marcello, ma la mia vocazione nasce all’interno del Cammino Neocatecumenale, fatto insieme ad una parte della mia numerosa famiglia, nella parrocchia dei Santi Pietro e Paolo.

Qual è stato il suo rapporto con la fede durante l’infanzia e l’adolescenza?
Da piccolo, avendo una famiglia nata e cresciuta all’interno del Cammino Neocatecumenale, ho ricevuto i Sacramenti dell’iniziazione cristiana, ho sempre celebrato la Messa e partecipato agli incontri, come fanno un po’ tutti i figli di chi segue il cammino, per obbedienza e perché spinti dai genitori. Man mano che sono cresciuto, però, ho iniziato ad avere delle mie idee e a manifestarle. Non ho mai lasciato il Cammino, ma ci sono stati momenti molto difficili, soprattutto nel periodo adolescenziale, tra la fine dalla Scuola Media e l’inizio della Scuola Superiore. All’epoca ero veramente ribelle e non accettavo molto l’autorità; spesso elemosinavo l’affetto dei miei coetanei e lo cercavo così tanto da compiere anche gesti sciocchi o pericolosi, pur di ricevere un po’ di approvazione dagli altri. Questo periodo di ribellione ovviamente ha toccato anche l’aspetto della fede, ma, guardandolo oggi, con la prospettiva nuova che ho nel cuore, posso dire che è stato anche utile. Nel tempo, infatti, ho compreso che, quelle che mettevo in atto, erano tutte strategie per fuggire dalle mie fragilità e che il mio desiderio, di essere amato e di essere felice veramente, risiedeva soltanto nel Signore.

Quando e come ha raggiunto questa consapevolezza?
Durante la Scuola Superiore, a diciassette anni, quando ho capito che Cristo era l’unico che potesse salvarmi e nella fede ho trovato acqua per la mia sete. Ho trascorso delle settimane difficili, in cui provavo una certa inquietudine nel cuore. Quando mi è stato annunciato l’amore di Dio, quindi che tutti i miei peccati erano stati perdonati, che non dovevo dimostrare niente a nessuno, che il Signore mi amava così com’ero, ho sentito un forte desiderio di portare anche ad altri quell’annuncio. Mi sono detto: come altri mi hanno fatto ricevere questo annuncio che ha operato meraviglie in me, così anche io voglio fare lo stesso verso altre persone. Preciso che ho creduto tutto questo non tanto attraverso un comprendere razionale, bensì attraverso un sentire nel cuore. Lo Spirito Santo ha agito in me in questo modo e mi ha messo nel cuore il desiderio della missione, prima ancora del desiderio di diventare prete. Ovviamente, avendo diciassette anni, ho dovuto attendere di terminare gli studi e di diplomarmi, prima di prendere qualsiasi decisione.

Quando e come ha maturato poi l’idea di volere diventare sacerdote?
È stata una evoluzione naturale, avvenuta un po’ alla volta. I mesi trascorrevano e io mi interrogavo sempre di più su cosa volessi fare della mia vita. Sono stati giorni lunghi, di profondo discernimento, poi mi sono arreso alla volontà del Signore. Ero un po’ spaventato, ma mi sono reso conto chiaramente che il Signore mi stesse chiamando a servirlo non solo come missionario, ma anche come presbitero. Una volta capito questo, mi sono tranquillizzato e, preso il diploma, a diciannove anni, mi sono iscritto al Seminario Redemptoris Mater.

Come ha vissuto l’esperienza in Seminario e l’amicizia con gli altri seminaristi?
Quando mi sono iscritto, il Seminario ad Ascoli Piceno era appena nato. C’erano i docenti e c’eravamo noi seminaristi – sei per la precisione -, ma ancora non esisteva una struttura che potesse ospitarci. Quindi vivevamo, a due a due, in alcune famiglie e ci recavamo ogni mattina all’Istituto Teologico a Fermo, che ci ospitava per le lezioni. Dopo due anni, non essendoci ancora una struttura dedicata, siamo andati a Macerata, al Seminario Missionario ed abbiamo vissuto lì fino al termine degli Studi Teologici. L’esperienza del Seminario è stata veramente formativa: oltre ad aver girato per vari luoghi, ho anche incontrato molte persone. Con alcuni seminaristi ho sentito subito una certa affinità, mentre con altri ho avuto anche qualche scontro, ma nel complesso è stata una palestra di vita che mi ha aiutato tantissimo a migliorare le relazioni con gli altri. Con molti di loro mi sento ancora oggi.

Terminata la sua formazione teologica, è stato in missione in diverse zone. Può raccontarci brevemente dove è stato e cosa le hanno lasciato le varie esperienze?
Prima di tutto sono stato un anno in Israele. Per sei mesi sono stato accolto alla Domus Galilaeae, una struttura situata sul Monte delle Beatitudini e gestita dal Cammino Neocatecumenale, dove ho trascorso il tempo ad accogliere i pellegrini che passavano per la Terra Santa. Gli altri sei mesi, invece, sono stato a Gerusalemme, dove ho avuto modo di visitare i luoghi significativi in cui Gesù ha trascorso i momenti più importanti della sua vita. Il Santo Sepolcro, in particolare, ha suscitato in me una forte emozione: vedere il sepolcro vuoto dal vivo, quello che solitamente leggi nel Vangelo e lo immagini con la fantasia, mi ha fatto pensare al Signore risorto, che ha vinto la morte, che ha salvato l’umanità, che ha fatto lo stesso con me, che ha salvato anche me dalla morte. Quel sepolcro vuoto è stato il segno della rinascita, del Signore e anche mia personale.
Successivamente sono stato per un anno e mezzo in Papua Nuova Guinea. Lì è stata tutta un’altra storia: c’è molta povertà e le persone vivono in baracche in cui mancano i servizi di prima urbanizzazione, come l’acqua e l’elettricità. Io abitavo nella parrocchia di Rabaul, una località ubicata sull’isola di Nuova Britannia, situata vicino ad un vulcano: lì la luce andava e veniva, mentre il villaggio ai piedi della montagna vulcanica era sprovvisto di corrente elettrica, quindi la Messa serale era quasi sempre al buio o con delle luci arrangiate. Questa è stata un’esperienza molto forte per me: ho toccato con mano la povertà, sia quella dei mezzi, sia quella umana. Oltre alle scarse risorse di sostentamento, infatti, nella comunità era presente anche un substrato di disagio giovanile che sfociava nella criminalità. I giovani del posto erano molto sorpresi dal fatto che io, che provenivo da un paese europeo, quindi ricco di mezzi, avessi scelto di andare in missione da loro, di stare con loro: questo mio amore per loro li stupiva e al contempo li appagava. Io, dal mio canto, pur notando problemi e difficoltà diversi dai nostri, ho constatato che la sofferenza del cuore era la stessa. Pertanto, sebbene la cultura fosse diversa, le abitudini diverse, le condizioni di vita diverse, tuttavia l’animo umano era sempre lo stesso. Lì, in quella povertà, inoltre, ho sentito ancora più forte il mio rapporto con Dio. Non sapendo la lingua, ho dovuto imparare l’inglese; ma all’inizio, prima che riuscissi a conversare fluentemente, ho sofferto molto la solitudine: in quei momenti la Parola e la preghiera mi hanno permesso di vivere un rapporto più profondo con il Signore.
Terminata questa esperienza, per due mesi sono stato in Australia: ho vissuto prima qualche settimana al Seminario di Sidney, poi un mese e mezzo ad Adelaide. Sono stati giorni brevi, ma molto intensi. Un’esperienza completamente diversa dalle precedenti, ma anche questa molto feconda, durante la quale ho conosciuto alcune famiglie in missione e ho sperimentato la bellezza dell’essere accolto ed amato.
Infine ho trascorso anche tre mesi a Malta. Ad un certo punto, infatti, mio padre si è ammalato gravemente e io mi sono riavvicinato a casa. Su questa bellissima isola del Mediterranei, ho vissuto con un altro prete in una parrocchia di Manikata. Anche questa esperienza è stata positiva: i Maltesi hanno un’indole molto generosa e anche qui mi sono trovato benissimo. Inoltre ho avuto modo anche di apprezzare l’arte, in particolare le opere di Caravaggio.

C’è una persona a cui si sente particolarmente vicino e che è il suo modello di riferimento?
Non c’è qualcuno a cui mi ispiro in particolare, però ho tante persone che sono capitate sulla mia strada e che desidero ringraziare. Prima di tutto il Movimento del Cammino Neocatecumenale: in particolare la Quarta Comunità Neocatecumenale della parrocchia Santi Pietro e Paolo di Ascoli Piceno; i catechisti Gianluca Matricardi e Sara Polini, che all’interno della Comunità si sono occupati della mia prima formazione e anche della mia vocazione, quando ero ancora un adolescente; infine i catechisti itineranti Eusebio Astiaso e Giulietta Cascino, per il tempo di formazione che mi hanno dedicato.  Poi i vari sacerdoti che ho incontrato lungo la strada, a partire dal primo rettore del Seminario Redemptoris Mater, don Massimiliano De Angelis, proseguendo poi con don Krzysztof Marciniak, don Mario Malloni e don Emanuele Marconi, per terminare con l’ultimo ed attuale rettore don Davide Tisato: tutti sono stati miei formatori e tutti, seppur in modo diverso, mi hanno arricchito.
Un posto speciale nel mio cuore infine è occupato dai miei genitori. Mio padre mi ha trasmesso la cosa più importante: la fede. Quella fede che mi ha condotto a fare questo bel cammino, a regalare la mia vita a Dio e quindi agli altri. Quella stessa fede che due mesi fa, quando lui è venuto a mancare, mi ha fatto accettare la sua morte con serenità e pace. Anche mia madre è una bella persona e ha una grande fede: ha vissuto tutta la sua vita a servizio della famiglia, rinunciando anche alle sue ambizioni professionali per il bene di noi figli e anche ora, che è vedova, sta vivendo la sua condizione con grande dignità e nella consapevolezza che un giorno rivedrà mio padre. Sono molto grato per essere nato in una famiglia così ricca di fede e d’amore: ho infatti una sorella, Alessandra, che ha sentito la vocazione per la famiglia, che è sposata e ha due bambini; poi ho due fratelli, Emanuele e Daniele, e una sorella, Elisabetta, che sono missionari laici in giro per il mondo; infine ho una sorella, Annapaola, che vive a Roma e due fratelli, Simone e Tommaso, che ancora vivono a casa, che sono più piccoli e che stanno cercando la loro strada. È bello appartenere ad una famiglia numerosa, perché sai di poter contare in ogni momento su qualcuno.

Si legge e si sente spesso in giro che le vocazioni siano in calo e che ci siano sempre meno preti. Perché? A lei, invece, cosa piace della Chiesa?
Credo che ognuno debba leggere bene nel proprio cuore e capire cosa possa dargli una vita piena. Quella di essere prete è una delle tante opzioni che un giovane ha a disposizione e va scelta con coraggio e convinzione, laddove uno senta la vocazione. Come ogni scelta, farsi prete implica la rinuncia a qualcosa. Ad esempio il diventare presbitero presuppone il celibato e quindi la rinuncia ad un rapporto sentimentale con una donna. Ma lo stesso potremmo dire per il matrimonio: quando uno decide di sposarsi con una donna, automaticamente rinuncia a tutte le altre. Credo che a molti il fatto di dover rinunciare a qualcosa, un po’ forse spaventi: ecco perché sono in calo sia le vocazioni sacerdotali che quelle matrimoniali. Per quanto mi riguarda, prima di decidere di farmi prete, sentivo che mi mancava qualcosa. Anche quando ho avuto una storiella con qualche ragazzina, non mi sono mai sentito pienamente appagato. Non saprei spiegarmi meglio di così. Posso solo dire che, ad un certo punto, ho sentito di potermi dare completamente a Dio e che quel pensiero mi ha fatto stare bene. Nel tentativo di scappare dalle mie fragilità, ho sentito invece in Dio la bellezza di essere perdonato e di essere amato così come sono. Questo mi ha dato molta forza ed è proprio questo che mi piace della Chiesa: la sua capacità di farti sentire amato.

Quali sentimenti ha nel cuore in attesa di ricevere l’Ordinazione Diaconale e cosa si attende dal futuro?
Sono prima di tutto molto grato al Signore per tutto l’amore che mi ha donato attraverso le persone che ho incontrato. Se guardo quaggiù, se guardo me, se penso alle mie mancanze, sono anche un po’ spaventato. Ma se volgo lo sguardo verso l’Alto, se guardo il Signore, se penso alla sua misericordia, mi sento molto tranquillo. Perciò sono emozionato, ma felice.
Per quanto riguarda il futuro, il desiderio è di amare il posto in cui andrò, che si tratti di una parrocchia del Piceno o di un altro continente. Desidero solo fare la volontà di Dio. Quindi la risposta alla domanda su cosa mi attendo dal futuro è: quello che Dio vuole; come Dio vuole; dove Dio vuole.

 

Carletta Di Blasio:

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