Di Bruno Desidera
Fino a qualche anno fa, era chiamato il “cortile di casa” degli Stati Uniti, che “facevano e disfacevano” Governi e presidenti a loro piacimento. Oggi, l’immenso sub-continente dell’America Latina, con la sua “appendice” caraibica, è, nella migliore delle ipotesi, “un cortile di casa poco frequentato” dalle Amministrazioni statunitensi. Ma, in un futuro anche prossimo, qualcosa potrebbe cambiare, soprattutto in caso di vittoria di Kamala Harris, che da vicepresidente si è occupata con una certa stabilità di questioni latinoamericane, e fa parte di una forza politica, il Partito democratico, più incline a cercare relazioni più strutturate con gli altri Paesi. Ad affermarlo, è Gianni La Bella, docente di Storia contemporanea all’Università di Modena e Reggio Emilia, grande esperto dell’area, che segue per la Comunità di Sant’Egidio, e autore di diversi saggi dedicati ai Paesi latinoamericani. Il Sir lo ha interpellato alla vigilia delle elezioni presidenziali del 5 novembre tra Donald Trump e Kamala Harris.
Dunque, professore, il “cortile di casa” non esiste più? L’America Latina conta poco in queste elezioni presidenziali?
Sì, va detto che la perdita d’interesse c’è stata con tutti gli ultimi presidenti, in particolare la tendenza ha riguardato sia la presidenza di Donald Trump sia quella di Joe Biden. L’America Latina è rimasta sullo sfondo, mentre premevano altre questioni internazionali.C’è un dato che rende l’idea: nelle ultime tre, forse quattro occasioni, il presidente degli Stati Uniti ha disertato il Vertice delle Americhe, l’incontro a cui sono invitati, a intervalli irregolari, tutti i capi di Stato del Continente. Ora, però, la “partita globale” si è fatta delicata e importante, ogni parte del mondo “conta”.
Cosa ci si può aspettare, in caso di vittoria, dai due contendenti?
Kamala Harris potrebbe diventare un riferimento per i Governi progressisti. Da lei si può sperare una maggiore sensibilità sui diritti umani, e anche a soluzioni negoziate sul grande tema delle migrazioni da Sud a Nord, a un approccio, appunto, più attento ai diritti delle persone. Collegato alla questione migratoria, c’è il tema degli investimenti, soprattutto nei Paesi dell’America Centrale.Harris ha seguito personalmente il programma “Central America Forward”, che ha avuto un impatto abbastanza buono, con la creazione di almeno 50-70mila posti di lavoro in Paesi come Honduras e Guatemala, tradizionali luoghi di partenza delle “carovane” dei migranti. Trump insisterà su libero mercato e “mano dura” nei confronti dei migranti irregolari e di loro che premono al confine messicano. In campagna elettorale, ha promesso che caccerà dagli Stati Uniti tutti gli “indocumentados”. Un’operazione che appare impossibile, dato che si tratta di dieci milioni di persone, tra cui 4 milioni di messicani e 2 di centroamericani. Le dichiarazioni roboanti fanno parte del “personaggio”, ma è probabile che in molti casi restino tali, e questo vale anche per la lotta al narcotraffico e per le relazioni con quelli che chiamerei i “convitati di pietra”, cioè Cuba, Venezuela e Nicaragua.
Come, invece, le cose potrebbero cambiare per i Governi latinoamericani?
Naturalmente, molto dipende dal loro attuale colore politico. Quindi, Donald Trump, in caso di vittoria, sarà un modello e un alleato soprattutto per l’Argentina di Javier Milei e per l’El Salvador di Nayib Bukele; Kamala Harris potrebbe, invece, diventare un riferimento dei Governi progressisti, del Brasile di Inacio Lula, della Colombia di Gustavo Petro, del Cile di Gabriel Boric, soprattutto del Messico di Claudia Scheinbaum, che si è insediata solo un mese fa.
Quella con il confinante Messico resta per gli Stati Uniti una relazione particolarmente importante…
Certamente. È vero che l’ex presidente Andrés López Obrador, al di là della sua matrice progressista, ma dai tratti populisti, ha avuto all’epoca un buon rapporto con Donald Trump, ma penso che a Sheinbaum, anche per affrancarsi dalla “tutela” del suo predecessore, potrebbe eventualmente puntare su un rapporto privilegiato con Harris. Non va, in ogni caso, dimenticato che il Messico è diventato il primo partner commerciale con gli Stati Uniti e che nel 2026 il trattato commerciale Canada-Usa-Messico andrà in scadenza e dovrà essere rinegoziato.
Prima accennava ai “convitati di pietra”, dove coesistono dittature che convenzionalmente possiamo definire di “sinistra”, oggi vicine a Russia e Cina, e situazioni economiche disastrose. Come la nuova presidenza Usa sarà chiamata ad affrontare le crisi di Cuba, Venezuela e Nicaragua?
Si tratta di una spina dolente, in ogni caso difficile da affrontare.
Anche in questo caso, forse Harris potrebbe avere una sensibilità maggiore, mentre Trump rischia di limitarsi alle dichiarazioni roboanti, visto che un atteggiamento “muscolare”, nell’attuale contesto internazionale, ben difficilmente potrebbe arrivare a scatenare, per esempio, un conflitto in uno di questi Paesi. Non dobbiamo dimenticare, comunque, che non si tratta solamente di questioni geopolitiche. Oggi il Venezuela vive la più grande emergenza umanitaria di tutto il mondo, con quasi 9 milioni di persone uscite dal Paese, che in gran parte vivono in altri Paesi americani. È un Paese “dissanguato”. A Cuba, da due settimane non c’è acqua potabile, per giorni è mancata l’elettricità. Il Venezuela, con il suo petrolio, non può più essere un riferimento economico.
Per concludere, ci sono, dunque, ragioni per ipotizzare un ritorno di interesse per l’America Latina, da parte della prossima Amministrazione Usa?
È possibile, sicuramente è auspicabile. E questo auspicio, tra l’altro, riguarda anche l’Europa. Gli Stati Uniti dovrebbero guardare con maggiore attenzione a questa parte di mondo, anche solo semplicemente per il fatto che si tratta, in sede Onu, di una “riserva” di 22-24 voti, che potrebbero essere molto importanti per questo “Occidente” così malconcio.
L’Occidente è, oggi, diviso di fronte alle sfide globali e una maggiore integrazione tra Usa, Europa e America Latina sarebbe solo auspicabile.
Un’altra sfida, sarebbe quella di rivitalizzare l’Organizzazione degli Stati americani, una specie di “Onu continentale” che oggi giace in un limbo. Esiste, ma senza un ruolo davvero importante. L’alternativa a questo impegno di Usa ed Europa è dare in mano il Continente a Cina e Russia. Cosa che in gran parte già avviene, dato che da tempo la Cina è il primo Paese investitore nel sub-continente. E dare spazio anche a nuove potenze “regionali”, come, ad esempio, l’Iran, che usa il Venezuela come porta d’ingresso nel Continente. Ma potenza regionale è anche il Brasile, stabilmente nel consesso dei Paesi Brics, con Russia e Cina. Perlopiù, un consesso di “autocrati”. In quest’ambito, il Brasile si è intestato la battaglia per delegittimare la centralità del dollaro e il suo ruolo nell’economia mondiale. Una battaglia che, probabilmente, ha poche possibilità di riuscita, ma rende l’idea della posta in gioco.