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Nuovi italiani, Vescovo Palmieri: L’integrazione si realizza solo quando vengono declinati i 4 verbi indicati da Papa Francesco

Di Roberta Pumpo

Intrappolati tra due mondi. I giovani di seconda generazione, nati e cresciuti in Italia, vivono un continuo limbo.

Troppo stranieri nei lineamenti per essere considerati italiani dalla società e troppo italiani nei comportamenti per le famiglie. In casa assorbono i valori tradizionali trasmessi dai genitori: sacrificio, studio, forti legami familiari, sobrietà. Fuori si confrontano con una società percepita come consumista e sguaiata. E a causa della barriera linguistica spesso i ruoli si invertono: sono loro a fare da ponte tra la scuola e la famiglia, a gestire le pratiche burocratiche, a tradurre per i genitori. È il quadro che emerge da “I nuovi italiani nella diocesi di Roma”, rapporto commissionato dalla diocesi di Roma e curato dall’Istituto di ricerche internazionali archivio disarmo (Iriad), presentato martedì 5 novembre, nella parrocchia di San Giuseppe Cafasso, a Torpignattara.

La ricerca, frutto della Consulta diocesana delle seconde generazioni, è stata presentata da Fabrizio Battistelli e Francesca Farruggia, docenti alla Sapienza e rispettivamente presidente e segretaria generale di Iriad. È stata condotta su un campione di 119 intervistati tra i quali 16 testimoni privilegiati (sacerdoti, rappresentanti associativi, giovani di seconda generazione), 6 genitori e 96 giovani romani di seconda generazione. Sono stati realizzati 12 focus group con 78 giovani romani di origine straniera, sia nati e cresciuti in Italia, sia nati in un altro Paese, provenienti da 12 diverse comunità, e 2 focus group online che hanno coinvolto 18 giovani residenti in Italia, con background migratorio da 12 Paesi diversi. L’86,6% dei ragazzi intervistati ha al massimo 24 anni, con una concentrazione significativa nella fascia 18-24 anni (42,3%). Il 67,9% è nato in Italia, ma la quasi totalità ha entrambi i genitori nati all’estero. Le comunità più rappresentate sono Nigeria (18), Filippine (11), Ucraina (9), Repubblica Democratica del Congo (8) e Polonia (7). Il 76,9% dei giovani dichiara che il padre vive in Italia da oltre 10 anni. Simile il dato per le madri (74,4%). Nonostante la lunga residenza in Italia, in famiglia si predilige la lingua d’origine (74,4% per i padri, 78,2% per le madri). Tuttavia, con gli amici, il 65,4% dei giovani utilizza prevalentemente l’italiano. Su 52 giovani 30 hanno affermato che il padre ha conseguito il diploma, 22 che ha anche la laurea. A risultare maggiormente istruiti sono i genitori provenienti dalla Nigeria e dall’Ucraina.

Nella quasi totalità dei casi, almeno uno dei due genitori è occupato. Il 70,5% dei giovani dichiara che lavorano entrambi. In comune i ragazzi hanno la fatica di definire chi sono nel mondo che li circonda. “In questa ricerca si parla di me, nata e cresciuta in Italia, e di tutti quei ragazzi con i quali condivido la comune esperienza di ragazzi di seconda generazione.

Veniamo da paesi diversi ma abbiamo le stesse paure”.

A parlare è Veronica Kallarakkal, 26enne studentessa di medicina, figlia di genitori bengalesi da anni in Italia. “A chi appartengo? Chi sono? – si è chiesta -. Abbiamo bisogno del nostro spazio per essere noi stessi e per dare tanto a questo Paese”. Centrale la questione integrazione. Le fragilità adolescenziali, amplificate dal confronto tra due culture diverse, spingono i nuovi italiani a ricercare attivamente le modalità più efficaci per integrarsi nella società e costruire una propria identità.

Il vicepresidente della Conferenza episcopale italiana Giampiero Palmieri ha rimarcato che “il ruolo della Chiesa romana nei processi di integrazione è quello che dalla Chiesa ci si aspetta”. Per l’arcivescovo “si realizza l’integrazione” solo quando vengono declinati i 4 verbi indicati da Papa Francesco in tema di immigrazione: accogliere, proteggere, promuovere, integrare. “È importante fare alleanza con questi giovani e adulti, un’alleanza rispettosa per il loro bene e per quello del nostro paese – ha dichiarato -. Solo così si potranno concretizzare i quattro verbi”.

Parlando con i giornalisti a margine dell’incontro, il vicario generale per la diocesi di Roma monsignor Baldo Reina ha auspicato che possa essere riconosciuta la cittadinanza ai tanti giovani di seconda generazione. “Sarebbe un peccato se a loro questo diritto non venisse riconosciuto – ha detto -. Abbiamo grande rispetto del dibattito politico, però riteniamo che in ascolto di queste generazioni si possa fare il passo che molti si attendono”. Dello stesso avviso l’assessore alle Politiche Sociali di Roma Capitale Barbara Funari la quale spera che “i ragazzi possano avere il diritto di cittadinanza che meritano anche attraverso una legge”.

Dal canto suo il ministro dell’Interno Matteo Piantedosi ha assicurato “il massimo impegno del governo nel combattere ogni forma di discriminazione e di razzismo. È importante supportare il processo di integrazione di questi giovani e integrare significa costruire una società dove tutte le persone, indipendentemente dall’origine, riescano a partecipare alla vita sociale ed economica ed avere le stesse opportunità”. Moderato da padre Giulio Albanese, direttore dell’Ufficio per le comunicazioni sociali della diocesi, l’incontro è stato “l’inizio di un nuovo percorso – ha dichiarato il vescovo ausiliare Benoni Ambarus, presidente della commissione regionale per le migrazioni -. Un punto di partenza per condividere questa realtà bella e ricca dei nuovi italiani”. Una realtà fatta da volti, storie, usi, costumi, credo diversi, che la parrocchia di San Giuseppe Cafasso riunisce già da tempo come ha ricordato il parroco don Gaetano Saracino il quale ha evidenziato che nel quadrante est “si fanno alleanze e si sta costruendo la Roma dei prossimi 20 anni”.

Redazione:

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  • Si parla solo di quello che deve fare l'Italia per loro non per quello che loro ed i loro genitori devono fare per l'Italia.
    Praticamente solo diritti.
    E i doveri?

  • Tutto giusto, tutto vero, tutto auspicabile... ma faccio una domanda: qualcuno che parla di Cristo e che, nel rispetto della liberta' di ciascuno, testimoni che il Vangelo e' fattore potente di fratellanza, di unita' e di amicizia, si trova ancora nella Chiesa? Possibile che nessuno, neppure un vescovo, osa ricordare che la ricchezza di una societa' dipende molto dalle radici profonde della pianta, con la chioma maestosa che accoglie, protegge e nutre gli ospiti che vi si appoggiano? La sociologia non basta, senza una vera anima le relazione si atrofizzano.