(Foto ANSA/SIR)

Giuseppe Casale

È presto per tracciare l’agenda estera di Trump, due mesi prima dell’insediamento. Tuttavia, a una settimana dall’Election Day, taluni elementi già suggeriscono delle direttrici.

Nei giorni scorsi sono circolate indiscrezioni sul piano per risolvere la questione ucraina. Più che soluzione, un congelamento “alla coreana”, così da lasciare alla Russia il controllo (non “de iure”) sugli oblast conquistati, con una forza europea di interposizione lungo la linea del fronte. Escluso l’ingresso nella Nato per 5 (o forse 20) anni, ma con il riarmo dell’Ucraina a scopo difensivo. La reazione di Kiev è già negativa. Nemmeno il Cremlino sarebbe d’accordo, giacché la sospensione potrebbe servire a Kiev per riarmarsi per poi riprendere il conflitto. Inoltre, le truppe di interposizione materializzerebbero la presenza massiva della Nato sul territorio. Senza garanzie, la Russia preferisce avanzare fino al collasso ucraino. Sulle credenziali di Trump inoltre pesano i precedenti: il ritiro dal Trattato del 1987 sui vettori a medio raggio, l’inattuazione degli Accordi di Minsk, le penalità comminate alla Germania per il raddoppio del NordStream. D’altra parte,Washington necessita di una via d’uscita dallo sperpero di armi e denaro. A impensierire il Pentagono c’è anche la nuova tendenza della Russia a emulare l’automatismo dell’art. 5 del Trattato atlantico in tema di difesa reciproca, che ora il Cremlino applica a Bielorussia e Corea del Nord: di questo passo, per gli Usa si restringerebbero gli spazi per intervenire in nuovi teatri.

Il piano lascerebbe il cerino in mano all’Europa. Il problema già si porrebbe con il presidio di ben 1200 km di fronte, che richiederebbero una mobilitazione militare e logistica smisurata.Più in generale, minacciando il disimpegno dal continente, Trump potrebbe giovarsi dei “riposizionamenti a corte”, innescando una competizione utile ad aumentare le quote alla Nato.Ma, nonostante gli sforzi, la concorrenza potrebbe rivelarsi pericolosa: Scholz ne è già la prima vittima, vista la crisi di governo innescata dall’ennesima richiesta di sforare il tetto del rapporto annuo debito/Pil. Per giunta, in uno scenario aggravato dalla leva dei dazi con cui il Tycoon vorrebbe aumentare le importazioni Ue dagli Usa. Il che, congiunto con la ricetta del riarmo calata nella crisi industriale nell’eurozona, comporterebbe un incremento di commesse presso il comparto bellico statunitense, anziché il rilancio della produzione interna immaginato da Draghi.

Incerto il versante mediorientale. Chiunque alloggi alla Casa Bianca, è fuori discussione il sodalizio con Israele. Nella fattispecie contano i nessi tra Likud e Partito repubblicano, quelli personali fra Trump (il genero) e la famiglia Netanyahu e i grandi finanziatori della campagna presidenziale. Guardando indietro, la sigla di Trump campeggia sotto gli Accordi di Abramo, l’apertura dell’ambasciata a Gerusalemme, il placet all’annessione del Golan, l’omicidio del generale iraniano Soleimani e il recesso dall’accordo sul nucleare con Teheran. Eppure, per allargare il conflitto, a Israele servirebbe la discesa in campo degli Usa, stanti l’inidoneità dell’Idf a guerre lunghe e multifronte e gli affanni demografici ed economici. Sul versante interno, inoltre, Trump ha incassato il voto di taluni settori della comunità islamica, né può ignorare che Kennedy jr, ingaggio di lustro nella sua squadra, denunciò gli attacchi alla Siria come risposta al veto di Assad al transito siriano del gasdotto turco-qatariota, concorrente di quello progettato da Teheran, attingente al giacimento nel Golfo Persico condiviso tra Iran e Qatar. Benedire il caos regionale inoltre farebbe traballare i troni delle petrolmonarchie, allontanandole dagli Accordi di Abramo, e ne bloccherebbe l’export di greggio, con ripercussioni sui prezzi dannosi anche al rilancio industriale statunitense. L’escalation avvicinerebbe i sauditi ai Brics e alla diplomazia cinese, che vanta la riappacificazione tra Riad e Teheran, le quali ora programmano esercitazioni congiunte.Difficilmente la Casa Bianca negherebbe carta bianca a Netanyahu, ma in un perimetro che escluda l’orbita degli interessi di Mosca: l’Iran e quindi la Siria, a sua volta connessa con l’Ucraina, considerando le proiezioni della marina russa dal Mar Nero a Gibuti.

Sul versante asiatico, resta aperta la guerra commerciale con la Cina. Tuttavia Xi confida in Trump come uomo d’affari, visto che dazi e sanzioni fuori misura incentiverebbero la “dedollarizzazione” dei mercati, così da restringere la collocabilità dei titoli del debito pubblico Usa.

Quest’insieme di fattori incoraggerebbe il pragmatismo del Tycoon verso una logica di scambio. Il tandem con Musk può fornire una chiave di lettura della Pax trumpiana.Il magnate non è stato solo il regista della campagna elettorale e il suo innesto nella Silicon Valley. Egli è l’“alter ego” iconico, dell’imprevedibilità e della spregiudicatezza del trumpismo nel giocare fuori gli schemi. La Megafactory 3 di Tesla a Shanghai mostra gli interessi cinesi di Musk. E spiega la ragione per cui questi ammette l’appartenenza di Taiwan alla Rpc, augurandosi per l’isola uno status speciale stile Hong Kong. Mentre Trump nei mesi scorsi accusava Taipei di attrarre l’esodo dell’hi-tech statunitense e di godere gratis della protezione di Washington, Musk invitava i propri fornitori taiwanesi a delocalizzare in Vietnam. D’altra parte, gli strali contro Maduro alludono alla riedizione della politica del piede di casa in Sud America, il cui sottosuolo ricco di litio fa gola al fatturato di Tesla. Sottosuolo che rileva anche in Ucraina, dove la guerra blocca i piani d’estrazione.

Con la maggioranza al Congresso, la Casa Bianca dovrà comunque piegare i settori di “deep state” più refrattari alle sterzate della Pax trumpiana. Con l’epurazione dei neocon dagli apparati, la Casa Bianca potrà perseguire sì la deterrenza, ma con un pragmatismo e un situazionismo sufficientemente disinvolto per smarcarsi da quelle prove di forza foriere di altre défaillance dell’hard power statunitense.

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