M.Michela Nicolais
Dalla “collaborazione” alla “corresponsabilità” tra tutte le componenti del popolo di Dio, laici e laiche comprese. E’ uno dei temi emersi dagli oltre mille delegati che si sono radunati intorno ai tavoli della basilica di San Paolo fuori le mura, per la prima Assemblea sinodale delle Chiese in Italia. A parlarne è mons. Erio Castellucci, vicepresidente della Cei e presidente del Comitato nazionale del Cammino sinodale.
Mons. Castellucci, si è appena conclusa la prima Assemblea sinodale, frutto di tre anni di cammino della Chiesa italiana. Si può già tracciare un primo bilancio?
Il bilancio è decisamente positivo. Il fatto stesso che tutte e 226 le diocesi italiane siano rappresentate e che 170 vescovi su circa 200 siano presenti, indica il concreto desiderio di offrire il proprio contributo per una Chiesa sinodale in missione: perché è questo l’unico grande tema.
Missione e prossimità sono le parole-chiave del percorso, in sintonia con il magistero di papa Francesco e con il Sinodo universale che si è appena concluso: quali contributi sono giunti dai tavoli di lavoro che hanno caratterizzato queste tre giornate?
Ho appena letto tutti i contributi, stesi in modo sintetico ma chiaro. Li riassumerei in alcune grandi convergenze:
la Chiesa in Italia è viva, nonostante la perdita di consenso registrata dalla sociologia;
è viva, perché si radica nella santità quotidiana che non è rilevabile dagli strumenti statistici; è viva, soprattutto nei germi di bene, nei gesti di generosità, negli spazi spirituali aperti anche in tante persone che non praticano o non credono.
Ai tavoli è stata data adesione piena alla visione di Chiesa che propone papa Francesco: non ossessionata dal “contare”, dall’occupare spazi e consensi, ma solo dal testimoniare la bellezza di credere in Cristo.
Una Chiesa più umile, più ridotta nel numero, ma più convinta, più desiderosa di assumere lo stile di Gesù.
L’attenzione alle vittime di abuso e ai poveri sono stati oggetto di due momenti forti a cui hanno partecipato le delegazioni diocesane riunite nella “tre giorni” a San Paolo. Quale impulso è giunto dalla Veglia di preghiera e dalle testimonianze per proseguire in questi due versanti di impegno?
L’impulso è stato forte anche perché le riflessioni proposte provengono dalle vittime stesse degli abusi, le testimonianze sono offerte da chi ha attraversato il buio negli ambienti ecclesiali ed è stato maltrattato da sacerdoti o laici. Fa impressione la profondità di un male che non si cancella più, anche se le vittime riescono persino a parlare di perdono.
Con gli abusi e il disprezzo dei poveri si tocca il fondo dell’abiezione umana, che è il contrario esatto dell’amore evangelico.
La Chiesa da anni ha preso coscienza della gravità del fenomeno anche dentro le sue fila e sta combattendo energicamente questa piaga, che, violando il corpo, uccide l’anima delle vittime.
Tra i temi della sua relazione, la necessità di una “conversione” delle strutture della Chiesa. Come aiutare le nostre comunità ad una gestione più “sinodale” – e dunque all’insegna della corresponsabilità – della pastorale, e come si può per far progredire concretamente la “questione femminile”?
Una gestione più sinodale implica un coinvolgimento maggiore dei laici, uomini e donne, nella guida delle comunità. Non basta una collaborazione, che di per sé si potrebbe offrire anche quando uno solo decide e gli altri intervengono in fase operativa, per tradurre le decisioni prese dall’autorità.
Occorre passare al modello della corresponsabilità, coinvolgendo i laici (e le religiose-i religiosi) già nella fase che precede la decisione, quella del “discernimento”.
E questa fase deve aiutare a maturare insieme la decisione, senza l’uomo solo al comando. In questo contesto, è delicato il tema della gestione delle strutture, che attualmente ricade – anche nelle sue conseguenze civili e penali – solamente sul pastore (parroco-vescovo), il quale normalmente non ha né il tempo né le competenze per amministrarle. Qui la corresponsabilità è ancora più delicata che nell’ambito strettamente pastorale, perché comporta suddivisione di responsabilità anche legali.
Il Papa, nel suo messaggio ai partecipanti, ha chiesto alla Chiesa italiana di “compiere al meglio il suo impegno per il Paese”. Nei Lineamenti si esorta a non contrapporre la cultura alla profezia: in che modo si può ancora parlare di Dio all’uomo di oggi con un linguaggio che sappia raggiungere tutti, anche i più “lontani”, e quali passi compiere in questa direzione, anche in vista della prossima Assemblea di marzo?
Il tema del linguaggio è decisivo e complesso insieme. Qualche volta si ha davvero l’impressione che la Chiesa non disponga più del miracolo delle lingue avvenuto a Pentecoste, dove ciascuno sentiva gli Apostoli parlare nella loro lingua. Credo però che, insieme alla necessità di adottare – anche nella liturgia, che in alcuni casi lo permette già – linguaggi più vicini alle persone, sia necessario tenere presente che il linguaggio non è solo quello verbale, anzi…
la maggior parte dei giovani, ad esempio, non è attratta dalle prediche, anche belle, o dalle catechesi, ma dalle esperienze che riflettono raggi di Vangelo:
aiuto ai poveri, vicinanza ai malati, momenti di amicizia sana, disponibilità ad essere ascoltati da adulti significativi… I cosiddetti “lontani”, se mantengono ancora un barlume di interesse per il Vangelo, lo attivano non in base alle belle parole udite, ma in base alle belle esperienze vissute.
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