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Studio, teatro, cene galeotte: se il carcere “funziona” si abbassa il rischio recidiva

Foto Calvarese/SIR

Andrea Ceredani

L’allarme è di quelli che si rincorrono periodicamente e si ripetono, drammaticamente, senza differenze. L’ultima segnalazione ufficiale è arrivata all’inaugurazione dell’anno giudiziario 2024, quando sono stati pubblicati i numeri del sovraffollamento nelle carceri. Preoccupante in molti istituti penitenziari toscani. I picchi si raggiungono a Pisa, dove risiedevano 128 detenuti ogni 100 posti letto e a San Gimignano, 132 su 100. A fronte di una media nazionale, pur sovraffollata, di 112 persone ogni 100 posti. Non solo. A preoccupare, è il tasso di suicidi: a Sollicciano, il carcere di Firenze, tra il 1° luglio 2022 e il 30 giugno 2023, 4 detenuti si sono tolti la vita e 44 hanno praticato autolesionismo. Un clima di tensione che si riversa anche sul personale della polizia penitenziaria che, nello stesso lasso di tempo, ha subito 124 aggressioni in tutta la regione. In realtà, il numero di detenuti è in calo rispetto agli anni precedenti ma spesso per loro, come denuncia il garante dei detenuti della Toscana Giuseppe Fanfani, “manca un percorso di reinserimento”. “È anche questo il ruolo, ecclesiale, dei cappellani e dei religiosi che operano in carcere. Sono persone che vivono con gioia il loro ministero e, quindi, spero che si intensifichi sempre di più la comunione delle varie diocesi della Toscana con i loro istituti penitenziari”. È questo l’augurio di don Paolo Ferrini, fresco di nomina a Delegato regionale toscano dei cappellani delle carceri e sacerdote della diocesi di Volterra.

Don Paolo, come si spiega tutta questa violenza – anche autoinflitta – nelle carceri?
“È un percorso di degrado lungo, purtroppo. Ci si è arrivati organizzando il carcere come un luogo di espiazione della pena e non come un luogo di recupero per voltare pagina. Quindi ci sono situazioni di degrado. Ricordiamoci che i detenuti, quasi tutti, devono uscire dal carcere e, perciò, devono avere la possibilità di recuperare”.

Lei individua dei responsabili per questo degrado?
“C’è carenza di personale, ma soprattutto di personale che abbia anche il ruolo di impostare programmi di recupero. Ci sono comandanti a capo di più di un istituto, ma mancano anche educatori e agenti. Fortunatamente in Toscana adesso stanno arrivando nuovi direttori, ringraziando il cielo”.

Leggiamo di suicidi e autolesionismo in carcere, è un’emergenza?
“No, purtroppo è ormai una condizione stabile da tempo. Servono interventi che nascono, sì, dalle emergenze ma che agiscono sul lungo termine. Bisogna cambiare l’idea del carcere – come dicevo – e in questo modo si abbassa anche la recidiva. Chiaramente c’è da fare anche un discorso su cosa succede fuori dagli istituti ma, se un carcere funziona, la recidiva si abbassa anche di moltissimo e, quindi, lo stesso sovraffollamento può essere risolto dentro all’istituto penitenziario. Se il carcere non funziona, chi entra continua a delinquere. E la recidiva aumenta”.

Statisticamente, però, la recidiva si abbassa molto quando vengono applicate misure alternative alla detenzione, che però sono minoritarie. Mancano strutture o volontà di applicarle?
“Le strutture ci sono, ma non sono mai abbastanza. Naturalmente si apre il tema della formazione e di chi promuove queste strutture. Io credo che dobbiamo riscoprire quello che si può già fare in carcere per gestire in modo diverso chi sconta pene più e meno lunghe”.

Un esempio di quello che dice è proprio Volterra. La sua è una esperienza alternativa?
“L’esperienza di Volterra è il frutto anche di una direzione illuminata, sotto varie guide, che ha portato buoni risultati nel tempo. Qui, il percorso trattamentale cerca di essere il più possibile improntato al recupero della persona attraverso le scuole, innanzitutto. Molti detenuti si diplomano e possono laurearsi anche con l’Università di Pisa”.

Non solo. Siete famosi anche per il vostro teatro…
“Sì, l’attività teatrale è molto conosciuta e permette un contatto importantissimo con l’esterno. Ma abbiamo anche le “Cene galeotte” organizzate dai nostri detenuti. Tutto questo, voglio dire, non porta in automatico al recupero di ciascuno, ma è l’unica strada percorribile per sperare che il maggior numero di persone possa uscire dal carcere in modo positivo”.

E funziona?
“Nel mio caso, posso dire di sì. Ma sono in contatto anche con altri cappellani toscani e questa strada alla fine paga. Pure negli istituti più critici tentiamo questo lavoro”.

Quanto è importante, quindi, il ruolo dei cappellani e della società civile?
“Moltissimo, lo sguardo della cittadinanza verso i propri detenuti è fondamentale. Ricordo che la maggior parte delle carceri sono costruite lontano dalla città e già questo è un ostacolo. Ma, poi, anche dal punto di vista ecclesiale, serve che le carceri siano sempre più realtà in comunione con le diocesi. Perché questa è la strada che ci permette di rendere più efficace il recupero di persone che sono in carcere e di avere una sensibilità diversa anche all’esterno”.

La vicinanza della cittadinanza aiuterebbe anche la polizia penitenziaria, secondo lei?
“Certo, serve un approccio umano che purtroppo, per una serie di condizioni, stenta a esserci. Nella mia esperienza personale, ma anche dal punto di vista degli educatori e degli psicologi, serve moltiplicare nelle carceri queste possibilità: dallo studio al lavoro interno, fino a progetti e laboratori. Bisogna credere in un’idea di carcere che sia bella, vincente e che sappia far stare in piedi le persone. Recuperarle. È difficile ma i cappellani toscani sono persone splendide che, nel loro ministero, si impegnano per questo”.