Il Rapporto Svimez 2020, presentato martedì 24 novembre, dedica un focus ad un nuovo fenomeno, legato all’emergenza sanitaria in corso: il “south working”. Questo capitolo del Rapporto è stato realizzato in collaborazione con l’associazione “South Working – Lavorare dal Sud”, fondata dalla giovane palermitana e south-worker Elena Militello. Secondo l’indagine realizzata da Datamining per conto della Svimez su 150 grandi imprese, con oltre 250 addetti, che operano nelle diverse aree del Centro Nord nei settori manifatturiero e dei servizi, “sono quarantacinquemila gli addetti che dall’inizio della pandemia lavorano in smart working dal Sud per le grandi imprese del centro-nord”. Se teniamo conto anche delle imprese piccole e medie (oltre 10 addetti), si stima che il fenomeno potrebbe aver riguardato nel lockdown circa 100mila lavoratori meridionali. Della possibilità che il south working possa diventare una nuova modalità di lavoro, anche alla fine dell’emergenza, come possibilità di un rilancio del Mezzogiorno, parliamo con Carlo Borgomeo, presidente della Fondazione con il Sud, che sostiene l’Associazione “South Working”.
Il south working può essere una risposta vincente contro la perdita di capitale umano al Sud?
Se per “vincente” si intende un progetto definitivo, che risolve il problema, la risposta è no; se, invece, s’intende un progetto utile, che, comunque, realizza un obiettivo importante, anche se in modo parziale, che è quello del ripopolamento, la risposta è sì, con una sottolineatura: non si tratta di meridionali che tornano, ma di “cervelli” che tornano. Il motivo per il quale la Fondazione con il Sud ha sostenuto questa iniziativa è che pensiamo che lo sviluppo del Mezzogiorno lo si fa rafforzando il capitale sociale.
Un cervello che rientra dà una mano forte a questo percorso.
In cosa consiste il progetto dell’Associazione “South Working”?
Abbiamo saputo di questa iniziativa di una ragazza palermitana, Elena Militello, e di suoi amici, che lavoravano in uno studio legale a Lussemburgo, che insieme hanno fondato l’Associazione. Noi abbiamo dato una mano a strutturarli, perché hanno fatto un gran lavoro ma tutto fondato sul volontariato. Noi abbiamo dato un contributo economico e di comunicazione.L’obiettivo dell’Associazione è rendere strutturale la modalità di lavoro dal Sud che è adesso congiunturale.
Secondo lei il south working potrebbe attrarre al Sud anche giovani non meridionali?
Sicuramente sì. Noi siamo tutti vittime di una impostazione del problema dei giovani che lasciano il Sud che è un po’ antica. Infatti, spesso, si usa il verbo “trattenere” i giovani al Sud. La questione, posta in questo modo, nell’era della globalizzazione è proprio sbagliata.
La grande scommessa è rendere attrattivi i territori del Sud per i meridionali e anche per i non meridionali.
I nostri territori hanno un bel po’ di attrazioni naturali e culturali: se a ciò si aggiunge una modalità possibile di lavoro interessante, ecco che ci siamo.
Quali potrebbero essere i pro e i contro del south working?
Un primo vantaggio per il Sud e per gli stessi lavoratori è, sicuramente, l’evitare un terribile sradicamento dalle relazioni sociali, dagli affetti: il benessere delle persone non deve essere sottovalutato. In secondo luogo, il south working sposterebbe una quota di reddito nel Mezzogiorno, crescerebbero i consumi, si muoverebbe il mercato immobiliare. Inoltre,si rafforza e qualifica in alcuni territori il capitale sociale, pensiamo ai piccoli paesi: questi giovani, dopo il lavoro, restano sul territorio, magari avranno idee, creeranno impresa. È un arricchimento assoluto.Ci sono vantaggi anche per le imprese: secondo autorevoli ricerche la produttività di chi lavora in smart working aumenta del 13%. Certo, ci sono, al tempo stesso, problemi di coordinamento, di controllo, di relazioni tra il personale di una stessa azienda, questo è un tema in discussione. Ci sono grandi aziende italiane che adesso stanno ragionando sul rendere strutturale lo smart working, perché ci sono grandi risparmi. Ci sono poi altri aspetti dello smart working a cui raramente si pensa: meno spostamenti, meno traffico, meno inquinamento sono altre conseguenze positive. Di contro, se tutto questo capitale sociale tornasse al Sud, ci sarebbero contraccolpi, ad esempio, sul mercato immobiliare al Nord.
Da un’indagine realizzata per conto della Svimez emerge che le imprese per adottare il south working chiedono, tra l’altro, riduzione dei contributi e diminuzione dell’Irap al Sud a chi utilizza lavoratori in south working in percentuale sulle postazioni attivate. Sono ipotesi concretizzabili?
Io credo che su questi aspetti si potrebbe aprire un confronto il cui protagonista potrebbe essere il ministro per il Sud. Alcune richieste sono giuste, su altre le imprese “ci provano”, ma sicuramente si potrebbe arrivare a una trattativa. Siamo di fronte a una situazione di grande flessibilità. Comunque,penso che almeno in una prima fase, dopo la fine dell’emergenza sanitaria, continuerà il fenomeno dello smart working.
Al Sud si registrano carenze infrastrutturali e di servizi: come superare queste ulteriori difficoltà?
Non possiamo immaginare di risolvere tutto in un colpo. Resta una serie di questioni gravi, ma la domanda da farsi è se è più facile che la qualità della vita migliori nel caso che i lavoratori tornino o meno dal Nord. La risposta per me è che migliorerebbe se tornassero.Sul territorio grazie alla presenza di persone la dotazione di servizi potrebbe avanzare, perché aumenterebbe la domanda.
Oltre a questa proposta del south working, a suo avviso oggi di cosa c’è bisogno per un rilancio del Mezzogiorno?
Ci sono aspetti che nel Mezzogiorno assumono carattere di emergenza, pensiamo alla sanità, ad alcuni servizi sociali essenziali, ai servizi educativi, al fenomeno drammatico dell’usura. In generale, per tanti anni si è provato a fare lo sviluppo al Sud trasferendo un po’ di risorse o “costringendo” imprese a trasferirsi al Sud. Ma senza risultati. Lo sviluppo arriverà in tempi più lunghi ma in modo più consolidato se impariamo la lezione:
lo sviluppo parte dal sociale, dalla comunità, dal capitale sociale e non il contrario.
Non c’è l’equazione: crescita uguale a “sociale” sistemato bene. Non ci sono infrastrutture, grandi aziende, esenzioni fiscali che tengano: abbiamo provato con queste “ricette” per settant’anni, senza superare il divario. Diceva il grande economista Sebregondi: è giusto che i territori meno sviluppati abbiano un aiuto esterno, ma se questo aiuto non intercetta la responsabilità locale, quella che chiamava “la voglia di sviluppo”, gli interventi esterni diventano assistenziali e oppressivi. Ed effettivamente così è!
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