DIOCESI – Sono stati presentati nei giorni scorsi a Loreto, per la prima volta nelle Marche, i dati emersi dall’indagine sui giovani e la fede, promossa dall’Istituto Giuseppe Toniolo dell’Università Cattolica e curata da Paola Bignardi, pedagogista e pubblicista, già presidente nazionale dell’Azione Cattolica Italiana e già coordinatrice dell’Osservatorio Giovani dell’Istituto Toniolo.
Nell’occasione abbiamo incontrato la dott.ssa Bignardi per commentare gli esiti dell’inchiesta da lei curata e per conoscere le sfide che attendono la Chiesa nei prossimi anni, soprattutto in merito alla pastorale giovanile.

Quale è il dato più rilevante che emerge dall’indagine da lei curata?
«Credo che nei giovani siano in atto una nuova ricerca di spiritualità e anche un modo diverso di credere. I giovani non sono non credenti, bensì stanno vivendo dentro una cultura che è profondamente cambiata. Cambiata non nei suoi elementi esteriori, bensì in quelli interiori, nel modo di vivere l’umano. Quindi i giovani stanno cercando di credere, cioè stanno cercando un modo di vivere la fede, che sia coerente con l’umano, così come lo vivono loro oggi. Il dato più rilevante, dunque, è questo: se i giovani vogliono vivere la dimensione religiosa, vogliono farlo da giovani di oggi».

Quindi ci sta dicendo che anche chi si definisce non credente, in realtà, ha una profonda spiritualità?
«Sì, esatto. L’inchiesta ha coinvolto un campione nazionale di 101 giovani di età compresa tra i 18 e i 30 anni. A tutti abbiamo chiesto di raccontare la propria storia personale, la storia religiosa, la propria idea di spiritualità, il pensiero sulla Chiesa, la posizione rispetto alla fede. In particolare ai giovani che sono usciti dal contesto ecclesiale, è stato chiesto: “Perché vi siete allontanati dalla Chiesa?”. Al contrario, a coloro che sono attualmente impegnati nel contesto ecclesiale, è stata rivolta la domanda: “Perché voi siete rimasti?”. Le risposte degli intervistati lasciano intravedere un mondo giovanile sorprendente: l’abbandono della pratica religiosa e della comunità cristiana non significa necessariamente distacco dalla fede, così come l’essere rimasti non esprime piena adesione a tutto ciò che la Chiesa pensa e propone. Negli uni e negli altri vi è una ricerca, quasi sempre inquieta e sofferta, di una fede personale che esprime anche l’aspirazione a una vita bella e buona, e la ricerca di una spiritualità autentica, che abbia le proprie radici nella profondità della coscienza».

Quali sono le ragioni che spingono alcuni giovani ad abbandonare la vita ecclesiale?
«La Chiesa viene vista come vecchia, lontana, chiusa, almeno per quanto riguarda la dimensione della fede. Questa visione non riguarda il rapporto con la società, dove invece la Chiesa viene vista come solidale e altruista. Alcuni giovani non si riconoscono nei linguaggi, altri non si riconoscono nella proposta. Il tema su cui maggiormente i giovani si sentono a disagio rispetto alla proposta della Chiesa è quello relativo all’omosessualità. Dei centouno giovani che abbiamo intervistato, solo tre hanno dichiarato apertamente di essere omosessuali e una quarta persona lo ha lasciato intendere, eppure tutti – anche gli altri novantasette che non sono direttamente toccati dall’argomento – hanno citato questo tema come quello che procura maggiore disagio nel loro rapporto con la Chiesa. Su questo tema non riescono ad accettare la Chiesa così come è oggi, sia rispetto alle modalità dogmatiche, indiscutibili dei suoi insegnamenti, sia rispetto allo stile delle relazioni che ci sono al suo interno, che spesso hanno sperimentato essere freddo, anonimo, e giudicante, e che è diventato quindi motivo di allontanamento dalle comunità cristiane. Ci sono poi altri allontanamenti dovuti al fatto che i giovani non trovano una proposta che risponda alle loro ricerca di spiritualità. Trovano molto “aziendalismo, attivismo ed iniziative”  – così si è espressa una giovane intervistata -, “ma mancano momenti e luoghi per fare un’esperienza spirituale significativa”».

Ha detto che i giovani intervistati non si riconoscono nella Chiesa, a volte nei linguaggi, altre volte nella proposta, altre ancora nello stile. Cosa si può fare, allora, a livello di pastorale giovanile in ciascuno di questi ambiti?
«Per quanto riguarda la comunicazione, questi ragazzi non hanno i linguaggi del catechismo, perché forse li hanno dimenticati o perché forse non li hanno ricevuti, quindi descrivono la loro esperienza religiosa con i linguaggi della vita, che sono fatti di immagini, di evocazioni. Ovviamente sono linguaggi imprecisi, come lo è quello della poesia, ma – proprio come la poesia – evocano di più e talvolta comunicano di più. Per poter parlare con i giovani, dunque, anche noi adulti siamo chiamati a parlare attraverso un linguaggio fatto di immagini ed evocazioni, che a loro risulti comprensibile.
Per quanto riguarda la proposta, siamo chiamati a ripensare completamente le nostre impostazioni pastorali, siamo chiamati a restituire importanza al rapporto con la persona. Quando uno va via, gli chiediamo perché? Il luogo in cui si tirano le somme, non è nel gruppo, bensì è a livello personale, nel dialogo ad uno ad uno. I giovani hanno bisogno di sentirsi visti. Ripenso alla storia di Zaccheo, il quale ha cambiato vita dopo che Gesù è andato a casa sua, non prima! È il nostro farci vicino all’altro, il presupposto che determina una conversione. Non il contrario!
Infine dobbiamo fare attenzione anche allo stile, ai modi. Non avviciniamoci ai ragazzi con l’obiettivo farli tornare da noi, magari trascinandoli. Non c’è bisogno di fare nulla per attrarre, basta solo mostrare la bellezza di una umanità che ha incontrato il Vangelo. Mi affascina molto una spiritualità dell’umano, che è universale. Dobbiamo ricordarci che solo nella libertà si educa, quindi siamo chiamati ad avvicinarci ai giovani non con l’idea di farli ritornare in chiesa (n.d.r. edificio religioso) o farli rientrare nella Chiesa (n.d.r. comunità ecclesiale), bensì con l’idea di capire cosa ci chiedono, come ci chiedono di convertirci per far respirare l’aria del Vangelo».

Dunque quale Chiesa sognano i giovani e a quale conversione chiamano gli adulti?
«Una ragazza dei centouno giovani intervistati ci ha detto che vorrebbe una Chiesa “come una cena in casa di amici, in cui sei libero di essere quello che sei, quindi quello che vuoi, in cui ti senti bene e a tuo agio, in cui puoi parlare con naturalezza e libertà di tutte le cose che vuoi”. Questa immagine, che appartiene alla vita, pur non essendo ben definita a livello teologico, definisce benissimo a livello pratico la Chiesa che i giovani vorrebbero. Che poi è quello che la Chiesa dovrebbe essere, quindi aperta, accogliente, inclusiva, non giudicante. Evidentemente il concetto è diverso dalla realtà. un conto è pensare la Chiesa così, un conto è viverla. Se uno pensa la Chiesa così, ma l’esperienza è in tutt’altra direzione, allora è chiaro il disappunto. È chiaro il desiderio che la realtà sia diversa, che corrisponda all’auspicato.
A quale conversione, dunque, ci stanno chiamando i giovani? Semplicemente a far vedere che viviamo il Vangelo! I giovani hanno bisogno di constatare che, guardando la Chiesa, si può sentire quale è il Vangelo. È questa la sfida più grande che siamo chiamati ad affrontare: conferire trasparenza al Vangelo; guardando noi cristiani, chiunque deve poter vedere il Vangelo».

I dati emersi dalla sua ricerca sono stati presentati in varie zone d’Italia. Qual è stata la reazione degli adulti? E qui nelle Marche, in particolare?
«Le reazioni degli adulti sono state di grandissimo interesse, come se le persone si aspettassero di sentire esplicitato un disagio che forse avvertivano anche loro, perché le posizioni dei giovani sono abbastanza condivise da loro. È come se si liberasse per tutti la possibilità di parlare di queste posizioni di disagio nei confronti della Chiesa e dell’esigenza di un rinnovamento. Sono rimasta colpita anche dal numero dei partecipanti, che spesso è stato sorprendente anche per gli organizzatori: mediamente le persone presenti sono state il doppio di quelle attese. Mi pare che questo sia un indicatore di come le persone avvertano la questione dei giovani e del dialogo con le nuove generazioni come una questione cruciale per la Chiesa e per il mondo.
Per quanto riguarda l’esperienza di Loreto, oltre che la grande partecipazione, mi ha colpito molto positivamente la qualità delle domande che mi sono state rivolte: molto pertinenti, molto vere e sensibili. Interrogativi come questi dimostrano non solo la comprensione delle questioni dei giovani, ma anche delle questioni ecclesiali che ci sono dietro».

Cosa si sente di dire ai lettori che sono più spaventati da questi cambiamenti che riguardano la fede?
«Questa trasformazione che riguarda la fede non è che piova da Marte, ma è semplicemente il frutto del rapporto tra la dimensione religiosa, di credenti, e quella umana. Tra l’essere cristiani oggi e l’essere uomini e donne oggi. È una esperienza profondamente diversa rispetto a quella di cinquant’anni fa, ma anche rispetto a quella di dieci anni fa. Questo cambiamento rapido può essere anche inquietante, ma in realtà lo avevamo anche previsto, in quanto questa verso cui stiamo andando è la direzione già indicata dal Concilio Vaticano II. Nell’omelia che diede inizio al Concilio Ecumenico Vaticano II, nota come “Gaudet Mater Ecclesia“, papa Giovanni XXIII disse proprio questo. Dunque, io non so se abbiamo perso sessant’anni, però c’è sempre tempo per ricominciare! E l’anno giubilare è l’anno in cui tutto può ricominciare, anche dal punto di vista dell’esperienza ecclesiale!».

Il volume che raccoglie gli esiti della ricerca e le riflessioni che ne scaturiscono si intitola “Cerco, dunque credo?” (Vita e Pensiero), ed è curato, oltre che da Paola Bignardi, anche da Rita Bichi, già professoressa ordinaria di Sociologia Generale presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore (sede di Milano).

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