Di Alberto Baviera
In Italia l’occupazione è in crescita ma il lavoro è sempre più povero e non di rado genera malessere. E poi le cronache settimanalmente riportano le tragiche notizie di morti bianche e di crisi aziendali che non sempre riescono a risolversi positivamente. Della situazione che sta vivendo il nostro Paese abbiamo parlato con Luigino Bruni, economista e storico del pensiero economico, docente alla Lumsa, direttore scientifico di “The Economy of Francesco” e presidente della Scuola di Economia civile.
Professore, partiamo dai dati. Secondo la Cgia di Mestre negli ultimi due anni l’occupazione in Italia è cresciuta complessivamente di 847mila unità (+3,6 per cento). Di questi nuovi posti di lavoro, 672mila sono lavoratori dipendenti e 175mila autonomi. Numeri in linea con quelli diffusi recentemente dall’Istat che ha rilevato come ad ottobre 2024 il numero di occupati si sia attestato a 24 milioni 92mila, con disoccupazione in calo. È davvero così in forma il mondo del lavoro italiano?
Il fatto che questi che questi dati siano usciti nei giorni in cui c’è stata la strage a Calenzano, dove sono morti 5 lavoratori e decine sono feriti, ci dice che
forse tutta questa salute non c’è nel mondo del lavoro.
Anche perché non bastano i numeri dell’occupazione in termini assoluti. Certo, qualche buona notizia c’è ma ce ne sono anche di meno buone. Ad esempio, l’aumento delle partite IVA, che in buona parte rappresenta il nuovo precariato, o l’aumento dei lavori a tempo determinato, la riduzione delle ore lavorate… Aumentano in assoluto i lavoratori ma non è detto che aumenti il benessere dei lavoratori perché, come sappiamo da sempre, non basta lavorare per non essere poveri, non tutti i lavori sono degni, non tutti i lavori sono buoni. Per questo dobbiamo sempre guardare dentro i numeri e non fermarci alle prime sintesi.
Qual è la realtà, dal vostro osservatorio?
La nostra impressione, quella di chi osserva un po’ il mondo economico italiano, è che l’Italia non stia benissimo. E non è un problema legato a questo o a quel governo, perché può far poco alla fine rispetto alle grandi tendenze del nostro tempo.
C’è un crescente malessere dei lavoratori con un aumento delle dimissioni volontarie di persone che si dimettono senza trovare un lavoro alternativo. Gli esaurimenti – oggi si parla ‘burnout’ –, i crolli psicologici, il fatto che le persone facciano sempre più fatica a lavorare non sono dati secondari.
Bisogna tenerne conto, altrimenti cadiamo nell’errore che si fa con il Pil che, in realtà, dice sempre di meno sul benessere di un Paese. Per cui bisogna vedere dentro i dati macro, diversamente ci dimentichiamo del malessere o del benessere dei lavoratori che sono molto più importanti dei numeri. L’impressione che abbiamo – come Scuola di economia civile o con The Economy of Francesco – è che lo stress dei lavoratori, la loro insoddisfazione e, soprattutto, la mancanza di senso del lavoro (perché si lavora?) sono malesseri e povertà nuovi che si associano ad uso di farmaci, ansie, fragilità… Tutto questo – che non emerge facilmente dai dati aggregati – dice molto di più sulla realtà del nostro Paese.
Una situazione che nitidamente ha fotografato l’arcivescovo di Milano, mons. Delpini, che per Sant’Ambrogio, ha parlato di gente che “lavora con passione e serietà, impegna le sue forze, le sue risorse intellettuali, le sue competenze. Lavora bene ed è fiera del lavoro ben fatto” ma “è stanca di un lavoro che non basta per vivere, di un lavoro che impone orari e spostamenti esasperanti. La gente è stanca degli incidenti sul lavoro. La gente è stanca di constatare che i giovani non trovano lavoro e le pretese del lavoro sono frustranti”…
Sono d’accordo con lui. Anche rispetto ad alcuni aspetti specifici che riguardano i giovani e la loro crescente fatica ad inserirsi nel mondo lavorativo. Le nuove generazioni sono molto diverse dalle precedenti mentre le imprese non sono così diverse da com’erano negli scorsi decenni. In fondo, sono rimaste molto più patriarcali della nostra società; la gerarchia rimane un criterio fondamentale e al loro interno conta chi ha il diritto di proprietà. I giovani sono cresciuti in un mondo post gerarchico e quando si approcciano con il mondo del lavoro si ritrovano con una gerarchia che non accettano e questo crea un conflitto. C’è un malessere giovanile dato dal vivere in una casa che non sentono loro, in un mondo del lavoro pensato ieri e loro sono di oggi. Dall’altra parte, le persone nella fase finale della carriera si ritrovano ad affrontare cambiamenti per loro troppo rapidi e fanno fatica ad inserirsi in un mondo dopo essere stati per trent’anni in uno diverso.
Nei tempi di cambiamento d’epoca, chiaramente stanno male i giovani (under 30) e gli anziani (over 50), quelli di mezzo sono più flessibili.
Di questi giorni è anche l’Indagine sulle competenze degli adulti (Piaac) dall’Ocse dalla quale emerge che il 35% della popolazione italiana tra i 16 e i 65 anni raggiunge al massimo il livello base. E anche per questo i salari sono bassi…
Girando spesso l’Europa e il mondo, tutta questa competenza in Germania, in Olanda o negli Stati Uniti non è che la veda. L’Italia è l’unico Paese al mondo nel quale c’è ancora il liceo in modo esteso, abbiamo ancora una percentuale di giovani che sanno almeno un po’ di latino o di filosofia assolutamente superiore alla media mondiale. Tanto che non è un caso se in giro per il mondo si trovano tantissimi italiani nei posti più importanti dei Dipartimenti di ricerca.
Dall’Italia, purtroppo, si va via ma all’estero siamo molto apprezzati per via della formazione scolastica che nonostante il degrado degli ultimi anni rimane ancora molto buona.
È vero che in certo modo di misurare le competenze molto legate al mercato ci fa sentire sempre in difetto rispetto agli altri, però
artigiani, lavoratori e studenti italiani sono certo che siano migliori di come ci vengono raccontati.
Nelle ultime settimane si è molto parlato della vicenda di Pomigliano d’Arco e della situazione dell’automotive in Italia legata alle scelte di Stellantis. Cosa ci racconta questa vicenda?
È una storia triste. La Fiat, come la Pirelli o la Olivetti, sono state grandi imprese sociali che, seppur nella diversità, sono state grandi istituzioni che hanno fatto migliore l’Italia. Il miracolo economico nel nostro Paese è stato possibile anche con la Fiat e tante altre realtà. Queste grandi imprese, compresa la Fiat, non erano soltanto economia ma anche società, bene comune, perché si inserivano in un patto sociale più ampio rispetto al mercato.
Oggi, purtroppo, le imprese rispondono ad altre logiche, alle rendite e ai dividendi.
Quando una grande impresa viene gestita da fondi di investimenti internazionali il problema non è manco più rappresentato dal profitto, perché il profitto è una categoria che ha bisogno dell’imprenditore.
La crisi che oggi attraversa queste grandi realtà, che sono realtà finanziarie, è data da un’eccessiva enfasi sulle rendite, che si mangiano i profitti. Non c’è più una famiglia, un imprenditore o qualcuno che ci mette la faccia. E, se c’è, è troppo lontano o troppo debole.
Per l’ex Fiat siamo di fronte ad una storia triste, ad un pezzo di capitalismo italiano che ha fatto cose stupende nel ‘900 e che si sta perdendo. Spero sia una lezione utile per le altre grandi imprese italiane che ancora hanno una gestione familiare perché davvero prendano coscienza che quel tipo di capitalismo globalizzato, tutto in mano alla finanza, alle rendite e ai dividendi è un capitalismo insostenibile, che porta soltanto malessere per tutti.
In questo contesto a far discutere è anche il divario di retribuzioni e compensi tra top manager e dipendenti…
Ci scandalizziamo facilmente di fronte alle notizie che riguardano i singoli. Ma se guardiamo le retribuzioni e i bonus di tanti manager ci accorgiamo che
ormai la classe dei top manager della nuova economia mondiale è totalmente autoreferenziale,
che si fa gli stipendi da sola, senza un vero riferimento a proprietà che non ci sono. Sono di fatto delle forme di rendita di una élite, di una casta che vive facendosi gli stipendi senza avere come interlocutore un imprenditore vero. C’è un’enorme classe dirigente globale, i famosi super ricchi; e
oggi il problema non è solo la disuguaglianza tra classi ma quanto tutti, ricchi compresi, siamo distanti dai ricchissimi che rappresentano l’1 per mille dell’umanità o anche meno. Questo è l’indicatore della disuguaglianza.
Per questo non va demonizzato la singola persona che si comporta come centinaia di colleghi della stessa casta.
Di fronte alla realtà che ha descritto e analizzato, da dove iniziare per cambiare rotta?
Innanzitutto parlandone di più. Perché uno dei problemi della finanza è che vive nei sottoboschi, nei fondaci della nostra civiltà, nelle zone d’ombra che sfuggono al controllo democratico.
Bisogna riportare la finanza nelle piazze, perché ha sempre avuto la tendenza dell’usuraio che si nascondeva.
Ricordando la nascita delle banche nel Medioevo, il primo passaggio è stato mettere la sede in mezzo alla piazza della città; perché così la può vedere, la può controllare, può protestare. La finanza di oggi nessuno sa dove si trovi perché è nei paradisi fiscali, in luoghi – anche in Europa ne esistono – inaccessibili.
L’opinione pubblica e i media devono parlare di più di economia, di finanza perché sono realtà troppo importanti per lasciarle soltanto agli economisti e ai finanzieri. Dobbiamo tutti riappropriarci di pezzi di vita che sono fondamentali per il bene comune.
Se invece ce ne occupiamo solo per gli scandali, arriveremo sempre troppo tardi. Perché tra uno scandalo e l’altro, il mondo di mano uguale; invece occupandosene, parlandone anche nelle scuole – con più educazione all’economia, alla natura vera dello scambio economico a cosa sono le imprese e il lavoro – si riuscirebbe a far sì la vita economica sia democratica, popolare, non lasciata di addetti ai lavori. Questa, secondo me, è la prima terapia per cambiare.
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