Foto Calvarese/SIR

Il filo spinato sulle ringhiere della casa circondariale di Rebibbia a volte non spezza i legami. E neppure la continuità tra quanto c’era di buono nella vita delle persone oggi detenute, prima dell’ingresso in carcere e dopo. Una trama di rapporti e relazioni, una trama di storie che si sono ritrovate tutte allo stesso tavolo, in prossimità del Natale. L’iniziativa è promossa, anche quest’anno, dal Rinnovamento nello Spirito Santo e dall’associazione Prison Fellowship Italia: un pranzo “stellato” per i detenuti in 40 carceri italiane.
Siamo nella sezione maschile di Rebibbia, a Roma. Nella torrefazione. Un corpo basso tra altri piccoli edifici. All’interno, tra una macina e un distributore automatico, sono stati ornati i tavoli e allestito un palco. Per un momento di festa e comicità. Ci sono le star. In cucina, lo chef Fulvio Pierangelini. Sul palco, la conduttrice televisiva Paola Perego. Attorno, i volontari e un gruppo di detenuti. La maggior parte di loro lavora lì. Si occupa di riparare i distributori automatici o del processo di tostatura del caffè. L’opportunità è offerta loro dalla cooperativa sociale Pantacoop, che li ha assunti. Così è nato il Caffè GaleottoVincenzo, dal volto giovane e affabile, ogni giorno smonta e monta i pezzi usurati delle “macchinette”. Per il pranzo, si è occupato della preparazione dei tavoli. “Questo per noi è un momento di libertà, ci allontana dalla sezione e dalle sbarre. Anche quando veniamo a lavorare qui per noi è come ritrovare la speranza. Ci riavviciniamo alla libertà. E poi impariamo qualcosa che ci potrà essere utile uscendo da qui”.

Arriva l’antipasto, vitello tonnato. Anche gli stessi detenuti hanno contribuito a prepararlo. Il pasto entra nel vivo.
Il primo, lasagne al ragù. Il pranzo si fa strong. E i volontari entrano in azione. Offrendo il loro impegno nel coordinare le portate. C’è Monia, mamma di due adolescenti da Velletri, c’è Francesca, prossima alla laurea in Giurisprudenza, arrivata con la buona volontà di servire e la curiosità di conoscere le dinamiche delle relazioni con i detenuti.
È il momento del secondo, guancia di vitello e poi seppie con piselli e purea. Vincenzo, pensionato, è arrivato da Palombara Sabina per dare una mano. Ricorda l’opera di misericordia insegnata da Gesù: “Ero in carcere e siete venuti a trovarmi”. E per questo Natale ha deciso di sperimentarla. Così si è sbracciato e, tra un vassoio e l’altro, ha detto il suo “eccomi”. Al suo fianco, Antonello, da Velletri, venuto a Rebibbia per stare vicino a chi è “lontano da una condizione di vita quotidiana come la nostra”.
La torta. Dolce come un momento di condivisione vissuto in armonia. Ciliegina, la simpatia sul palco che ha rallegrato il pranzo.

Ed ecco il caffè. Ovviamente “Il Caffè Galeotto”. All’angolo della sala della torrefazione, il bar vero e proprio. Dietro vi sta Massimo, poco più di cinquant’anni. Ce lo offre. Smista bicchierini, separa le cialde. È un lavoro che conosce bene, perché ha gestito nella sua vita passata due bar a Roma. Poi, ha accumulato errori e una serie di condanne, ma nel frattempo non ha mai smesso di lavorare. E il lavoro da un anno lo ha ritrovato anche a Rebibbia. “Dopo 18 anni senza avere compiuto reati sono dovuto tornare in carcere, lasciando la mia occupazione, perché non sono previste misure alternative per pene superiori ai sei anni. Lavorando, mettendoci a servizio degli altri davvero possiamo riscattare il nostro debito con la giustizia”, ci dice. Al suo fianco Francesco, che si occupa degli ordini e del magazzino, ha 35 anni e conosce la realtà del carcere da quando ne aveva 21. Ha abbandonato gli studi alle superiori. E oggi ci confida con certezza: “Se avessi continuato con la scuola non sarei qui adesso”. Tutti nella sala sono a conoscenza di un grande evento. Il 26 dicembre verrà Papa Francesco per aprire la Porta Santa all’interno del carcere. Non tutti potranno esserci, ma l’attesa è condivisa da ciascuna delle persone presenti: “Il Papa si ricorda spesso di noi – dice Andrea –. La sua presenza sarà un nuovo segno di attenzione nei nostri confronti che non ha avuto nessun altro”.

Al termine del pranzo, la gioia per il momento vissuto continua nelle parole di chi lo ha organizzato. Bruna Pernice del Rinnovamento nello Spirito Santo conosce bene la realtà di Rebibbia, perché insegna proprio lì: “Abbiamo voluto portare qui una ventata di speranza e calore, un senso di famiglia, anche con la presenza degli artisti, in una realtà di sofferenza come quella del carcere”. Le fa eco Marcella Reni, presidente dell’associazione “Prison Fellowship Italia Onlus”: “A tavola di solito invitiamo gli amici. A chi soffre la lontananza degli affetti abbiamo portato un segno di vicinanza e di speranza, proprio qui dove il Papa aprirà una Porta Santa, nel Giubileo della Speranza”.

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