Gianni Borsa
Bellissimo. Giovanissimo. Poverissimo. Tre assoluti per descrivere – senza poter essere esaustivi – un Paese accogliente, carico di contraddizioni, lontano dalla modernità. Il Burundi sa essere affascinante e commovente allo stesso tempo. Per la sua natura rigogliosa, per le nuvole di bambini che ti circondano gioiosi, per i segni di una vita spesso difficile da affrontare. E per la sua fede diffusa.
Rapido affresco del Paese. Collocato nella regione dei Grandi laghi, confinante con Rwuanda, Congo e Tanzania, senza sbocco al mare, il Burundi è grande più o meno come la Lombardia. 11 milioni di abitanti, alta densità di popolazione a maggioranza hutu, quasi tutti cattolici, i burundesi parlano kirundi e, chi può frequentare la scuola, anche francese. La gente non si concentra nelle città (capitale Gitega, poi Bujumbura, Ngozi, Bururi), stabilendosi soprattutto in villaggi e piccole comunità rurali. Il reddito pro capite non arriva a due dollari al giorno, per questo il Paese è ritenuto, secondo le statistiche, il più povero al mondo. L’elevata fecondità porta una giovane età media, ma l’aspettativa di vita si ferma attorno ai 50 anni. L’economia si basa principalmente sull’agricoltura, con uno sfruttamento intensivo dei terreni, e su poca pastorizia. Fabbriche e uffici, così come la grande distribuzione commerciale, sono una rarità.
Oltre il colonialismo… Indipendente dal 1962, dopo aver subito il pesante colonialismo tedesco e infine belga, il Burundi è ufficialmente una repubblica presidenziale. La storia post coloniale è segnata da sanguinosi colpi di Stato, vendette, scontri etnici tra hutu e tutsi, che rimandano alla triste memoria delle stragi del vicino Rwanda. Ora il Burundi sembra pacificato…
Tra la gente. Fin qui quello che si può più o meno trovare anche su wikipedia o sui libri di geografia e storia. Senza trascurare che il Burundi custodisce la fonte più a sud del Nilo, che si affaccia sul gigantesco lago Tanganica, e che è il “Paese dei tamburi”, preziosità storica e folkloristica divenuta “patrimonio dell’umanità” (Unesco). Eppure questi elementi non raccontano la gente del Burundi. Non dicono dell’amabilità delle persone che si incontrano, in grado di accoglierti e ospitarti donando, se occorre, il loro essenziale per vivere. Le statistiche non dicono dei sorrisi dei piccoli che ti abbracciano e gridano e saltano al solo vederti. Negli occhi rimangono le case umili, l’infinita scia di persone che cammina ai bordi delle strade (scarsi i mezzi pubblici, pochissime perché troppo costose le auto, chiusi i benzinai per mancanza di carburante), le biciclette utilizzate come principale mezzo di trasporto commerciale, cariche all’inverosimile.
La vita di ogni giorno. Il Burundi è un altipiano a 1.700 metri: clima tropicale, vegetazione rigogliosa, ovunque alberi di banane, avocado, mango, maracuja. Chi possiede una zappa coltiva manioca, mais, riso, fagioli, piselli, patate dolci in piccoli appezzamenti oppure nei latifondi dei ricchi. Le case sono semplici, essenziali, non di rado senza acqua corrente né elettricità. La vita si svolge per strada, nei negozietti o al mercato. Ci si immerge in una vitalità colorata, semplice, dignitosa.
Senso di comunità. Il “cuore” del Burundi è la sua stessa popolazione. Capace di resistere alle sfide della giornata, di guardare al futuro senza eccessivi sogni impegnata com’è a vivere abbarbicata al presente. Dentro questa quotidianità si scopre il senso di comunità, l’apertura all’altro (anche se “muzungu”, uomo bianco), una generosità che va oltre l’immaginabile. Così, un viaggio per conto della Fondazione Missio e dell’agenzia Sir, si trasforma in un bagno di infinita cordialità. Ogni visita a villaggi periferici, comunità religiose, curie vescovili, mercatini, parrocchie di città, aggregazioni laicali cattoliche si rivela una scoperta. “Siamo venuti ad ascoltarti”, senti dire, anche quando tu ti rendi conto di aver poco o nulla da raccontare.
Chiesa in uscita. Il ruolo-guida per un soggiorno di una decina di giorni nel Paese è affidato alle suore burundesi “Bene Mariya” (Congregazione delle suore del Cuore immacolato di Maria). Numerose, in gran parte giovani, operatrici volontarie del welfare, si trovano nelle scuole, negli ospedali, negli orfanotrofi, accanto alle famiglie indigenti, nelle periferie urbane come in quelle agricole. Attive nella pastorale vocazionale, nell’educazione giovanile, sulle frontiere della carità, accanto a persone disabili o bisognose di assistenza psichiatrica. Hanno una parola buona per chi le ferma per strada chiedendo aiuto. In queste suore intravvedi il volto della “Chiesa in uscita”. Anche così il Vangelo si irradia in questo recondito angolo d’Africa.
Guardando avanti. Arduo immaginare il futuro del Burundi e della sua gente. La cooperazione internazionale qui fa arrivare solo le briciole, mentre la Cina mette, a poco a poco, le mani sul Paese. Non ci sono abbastanza risorse naturali per attirare altri colonialisti. Un’elevata percentuale di bambini non frequenta la scuola; gli istituti superiori e l’università sono proibitivi per le famiglie. Il Governo non ha sufficiente forza né soldi per tentare di investire nel domani. Le sole, vere ricchezze sono la generosità proverbiale, il valore aggiunto – materiale e valoriale – prodotto dalle Chiese e dalle comunità religiose (cattolici in primis), e i bambini. Ai quale occorrerebbe dare un futuro, più che chiedere loro di costruirlo. Ma forse proprio dalle giovani generazioni potrà arrivare ciò di cui il Burundi ha bisogno.
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