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Sorelle Clarisse: “Nelle acque del Giordano”

DIOCESI – Lectio delle Sorelle Clarisse, del Monastero Santa Speranza.

«Consolate, consolate il mio popolo – dice il vostro Dio -, parlate al cuore di Gerusalemme e gridatele che la sua tribolazione è compiuta, la sua colpa è scontata, perché ha ricevuto dalla mano del Signore il doppio per tutti i suoi peccati».
Sono le parole bellissime che il profeta Isaia, a nome del Signore, rivolge al popolo di Israele in esilio a Babilonia. Il profeta dice quello che il Signore gli ha ordinato: annunciare la consolazione, annunciare la liberazione.
Il tempo della tribolazione è terminato, il popolo può guardare con fiducia verso il futuro: lo attende, finalmente, il ritorno in patria.
E il Signore stesso guiderà il suo popolo sulla via della liberazione e della salvezza.
In che modo farà tutto questo? Ce lo dice sempre il profeta Isaia: con la sollecitudine e la tenerezza di un pastore che si prende cura del suo gregge, lo raduna, lo fa tornare una comunità raccolta attorno alla sua voce e alla sua Parola.
Un pastore che ha una particolare attenzione per gli agnellini: li porta «sul petto», se ne fa carico, perché sono ancora deboli e fragili. Un pastore che ha cura speciale per «le pecore madri», quelle che portano in sé la vita futura del gregge, la speranza della vita che continua. Le «conduce dolcemente».
È quanto ci conferma anche il Vangelo di oggi nel quale Luca ci descrive la scena del Battesimo di Gesù al fiume Giordano.
Gesù è in fila con i peccatori, in fila e in attesa di essere battezzato da Giovanni Battista.
Questo gesto di Gesù, che si immerge come tutti nelle acque del Giordano, ci narra di un Dio fatto uomo che, come il pastore della prima lettura, vive in pienezza la vita del suo popolo; lui, che è il Santo, pur non avendone bisogno, partecipa ad una prassi penitenziale (il battesimo proposto dal Battista), segno che nulla di ciò che è umano è estraneo a lui.
Gesù rivela, in questo modo, il vero nome di Dio: misericordia, l’essenza stessa di Dio, che fa sì che il nostro peccato, il nostro male, le nostre debolezze non siano più motivo di separazione da Lui, bensì luogo dove finalmente può raggiungerci, non più luogo di condanna, ma spazio esistenziale necessario per rivelarci la sua vera identità, quella di pastore, medico, amore, salvatore.
È il Dio che viene a cercare e salvare ciò che era perduto, scrive sempre l’evangelista Luca in un altro passo del suo Vangelo, e che comincia la sua missione proprio in mezzo ai perduti.
È lì che il Forte si fa trovare: tra i deboli. Cristo si manifesta tra chi si riconosce peccatore, senza far sfolgorare la sua santità ma facendola scendere con Lui nelle acque un po’ fangose del Giordano.
«Ed ecco, mentre tutto il popolo veniva battezzato e Gesù, ricevuto anche Lui il battesimo, stava in preghiera, il cielo si aprì e discese sopra di Lui lo Spirito Santo in forma corporea, come una colomba…».
Un’immagine per dire che il nostro limite, la nostra piccolezza diventano possibilità e condizione perché il cielo di Dio si possa letteralmente squarciare sopra di noi, in modo da essere raggiunti dalla sua stessa vita. Allora potrà cominciare per noi una vera e propria ri-creazione, simboleggiata proprio dalla colomba, segno, come già al tempo del diluvio universale, di una pace ristabilita per sempre.
«…e venne una voce dal cielo: “Tu sei il Figlio mio, l’amato: in te ho posto il mio compiacimento”».
Il Padre parla al Figlio e offre a noi questo lieto annuncio con cui vogliamo concludere il tempo del Natale e rituffarci nel tempo ordinario: la vita di fede non è un’impresa titanica ma un lasciarci raggiungere in profondità dall’amore di Dio manifestato nel Figlio.
Contemplare, allora, il Battesimo del Signore, è far memoria della verità di noi stessi, acquisita con il nostro Battesimo: non viviamo sotto un cielo chiuso e muto, e neppure terribilmente soli e disperati.

Siamo, invece, figli amati, e come dice Paolo nella seconda lettura, tratta dalla lettera a Tito, «eredi della vita eterna».