Giovanna Pasqualin Traversa
Irene ha sedici anni, vive a Roma con i genitori Luca e Ruena, la sorellina tredicenne Ilaria, e Sally, una deliziosa golden retriever di cinque anni. Il suo sguardo è luminoso: ha attraversato il tunnel dell’anoressia ma è riuscita ad uscirne ed ora prosegue, fiduciosa e determinata, il suo viaggio di guarigione. In occasione della Settimana del fiocchetto lilla dedicata ai disturbi del comportamento alimentare (10-15 marzo), la incontriamo con i suoi genitori una sera, al termine di un day hospital all’ Ospedale pediatrico Bambino Gesù dove viene seguita, insieme alla famiglia, dal Centro per l’anoressia e i disturbi alimentari diretto dalla neuropsichiatra Valeria Zanna, seguendo un modello terapeutico collaudato e basato su un lavoro multidisciplinare che coinvolge professionisti delle aree psicologica, psichiatrica, nutrizionale, endocrinologica e cardiologica per un approccio integrato ed efficace.
“Il mio problema – esordisce Irene in modo lucido e pacato – è iniziato quando sono stata lasciata da un ragazzo, un anno e un mese fa, a febbraio 2024, e ho cominciato a sfogare il mio senso di vuoto rifiutando il cibo. Ho iniziato a mangiare sempre meno tentando di non farmi scoprire dai miei genitori, e ad andare a camminare sempre più spesso e a lungo con il mio cane”. Ma Luca e Ruena capiscono subito che qualcosa non va e affrontano la questione proponendole un percorso terapeutico, accettato da Irene senza troppa convinzione, tra alti e bassi in cui perde peso, ne recupera un po’ per poi perderne di nuovo. “Ero certa di avere tutto sotto controllo, sicura che se avessi voluto avrei potuto dire basta”. Le cose però non vanno così: tra fine settembre e inizio ottobre dello scorso anno la situazione precipita, Irene ha una forte crisi:
“Non riuscivo più a inghiottire nulla, mi sentivo un blocco in gola”,
e il 4 ottobre si ritrova al Pronto soccorso del Bambino Gesù al Gianicolo dove le dicono che il suo cuore inizia a soffrire e a rallentare.
Da gennaio il suo peso è sceso da 55 a 39 chilogrammi.
Una dottoressa le spiega che il cuore è un muscolo e quando il corpo ha esaurito la massa grassa, per nutrirsi intacca i muscoli, e quindi anche il cuore che inizia a rallentare i suoi battiti. Irene viene ricoverata per 21 giorni; il giorno successivo alla dimissione inizia il suo percorso verso la guarigione presso il Bambino Gesù a San Paolo. In principio tre volte a settimana. “Mi sono trovata molto bene con i medici e con la nutrizionista, mi sono sentita accolta e capita, ho compreso che non ero l’unica ad avere questo problema. Anche l’esperienza del gruppo, per me completamente nuova, mi ha aiutato moltissimo, così come il ‘pasto assistito’. Nel confronto con le altre ragazze si è rafforzato il mio desiderio di voler guarire”.

(Foto Osp. Bambino Gesù)
Le chiediamo come si sente. “Decisamente meglio, mi sento anche molto cambiata, ho trovato la luce che mi aiuta a uscire dal tunnel. Durante il ricovero ci sono stati momenti in cui non riuscivo a finire i pasti, facevo moltissima fatica a prendere peso e a gennaio mi hanno detto che mi avrebbero portato in comunità. A quel punto mi sono scossa e mi sono detta: la devo smettere, fuori ci sono persone che mi stanno aspettando.
Non sono sola. Ho la testimonianza di ragazze che sono guarite. Ce la posso fare anch’io”.
Sorride fiducioso papà Luca: “Stiamo ancora camminando, il percorso è lungo, ma ce la faremo”. Con voce rotta dall’emozione Ruena ripercorre l’incubo dei mesi passati: “Se dovessi dare un titolo a questo tremendo periodo lo chiamerei ‘il sequestro’, perché era come se questa subdola malattia avesse sequestrato nostra figlia:
non era più lei, il suo corpo era lì, ma era un involucro svuotato,
come se la sua gioia, la sua originalità, i suoi pensieri ci fossero stati sottratti. E’ stato devastante”. Quello che ha consentito ai genitori di non crollare è stato il fatto che Irene non ha mai interrotto il dialogo con loro, “pur mantenendo la sua posizione, ha conservato l’apertura e la lealtà nei nostri confronti”. La mamma ripercorre lo spavento di quella giornata al Pronto soccorso, quando viene informata dei rischi che sta correndo il cuore della figlia; si sente mancare il respiro tra angoscia e tentativo inconscio di negare la gravità della situazione. Irene viene ricoverata e dopo due giorni di attesa nei quali non mangia le mettono il sondino. “Quello è stato per tutti noi un momento drammatico – prosegue la mamma. La paura per la sua sopravvivenza, la necessità di psicofarmaci.
In quel momento è come se ci fosse crollato il mondo addosso, era tutto troppo più grande di noi”.
E tu Irene, come ti sentivi? “Non mi rendevo conto di niente, era come se vivessi in una bolla. Avvertivo una barriera invisibile, ma reale per me, che mi offuscava la realtà. Mi diedero la notizia che mia zia era incinta ma nulla mi toccava, ero indifferente a tutto, assente”.
“C’è una fase di smarrimento e spavento perché non riconosci più tua figlia, poi la paura diventa vitale perché arrivano i problemi organici, legati alla sua sopravvivenza – racconta Luca -. E in quei momenti ti basta che tua figlia respiri, e speri e preghi che il giorno dopo sia per lo meno non peggiore di quello che stai vivendo. Ti basta quello, speri che domani sia come oggi o leggermente meglio.
La vita si ferma, ti trovi a vivere in un tempo sospeso.
Irene ha il sondino, senti che è messa in qualche modo in sicurezza, ma i suoi occhi parlano…”.
Ruena confida: “E’ stata durissima, ma mi dicevo: Irene è controllata e al sicuro. Non siamo soli. Medici e infermieri hanno una modalità eccezionale, sanno ascoltare, consolare, rassicurare. Fanno sentire accolta tutta la famiglia. Nel reparto di pediatria dove Irene era ricoverata alcune mamme gliele hanno proprio cantate – e il tono di voce diventa vivace – facendole capire che a differenza dei loro figli, segnati da una disabilità o una malformazione anche gravi, dipendeva solo da lei riprendere in mano la sua vita. Si è davvero creata una rete di sostegno e aiuto reciproco”.
Lo scorso 23 ottobre, dopo la dimissione, Irene entra nel programma di alta assistenza, un day hospital che prevede un pasto assistito – consumato dalle ragazze tutte insieme dopo la rilevazione di peso e pressione arteriosa -, un monitoraggio psichiatrico e nutrizionale, psicoterapia di gruppo per genitori e pazienti e incontro di psicoterapia familiare; appuntamento all’inizio quotidiano ma che diventa meno frequente con il miglioramento clinico. Oggi Irene ci va una sola volta a settimana. La mamma sottolinea l’importanza della “gradualità con cui i medici aiutano le ragazze a riacquistare il senso della realtà.
Questa malattia scatena in loro un delirio d’onnipotenza per il quale pensano che sia tutto a posto e tutto sotto controllo.
Positiva anche la fermezza con la quale consentono gradualmente il ritorno alla ‘normalità’ in base alle condizioni di salute”.
Irene frequenta il secondo anno del liceo classico. “Mi trovo molto bene con i miei compagni che sono stati presenti e vicini anche durante il mio ricovero”. Le chiediamo i suoi programmi per il futuro. “Da grande vorrei diventare infermiera – risponde -. Quello che ho vissuto in ospedale ha fatto nascere in me la passione per questo mestiere. Ho visto quanto un infermiere possa essere vicino al paziente, quanto la presenza di queste figure sia stata importante nel mio percorso di risalita.
Conservo e continuerò a conservare nel cuore le tante parole che mi hanno detto”.