Foto La Nuova Riviera
SAN BENEDETTO DEL TRONTO – Un giovane di 24 anni, residente a Giulianova, è stato brutalmente accoltellato sul lungomare di San Benedetto del Tronto nella mattina del 16 marzo 2025. La vittima era già coinvolta in un processo per tentato omicidio nel 2023, un dettaglio che ha acceso polemiche ma che non giustifica in alcun modo la ferocia dei commenti sui social.
L’orrore di questa vicenda non si ferma infatti soltanto alla violenza del delitto. Il dramma è proseguito nelle reazioni di chi, invece di provare sdegno per un’altra vita spezzata, ha scelto di riversare odio e disumanità sui social.
Il giovane era un immigrato di seconda generazione, figlio di genitori nordafricani ma nato in Italia.
Questo elemento, anziché suscitare una riflessione sulla complessità delle dinamiche sociali, ha scatenato una raffica di commenti vergognosi: “Meglio così: uno in meno”, “Gente che non serve in questo Paese”, “La storia di questo ragazzo ci insegna che c’è una giustizia divina”. Parole che rivelano un livello allarmante di rabbia e intolleranza.
Eppure, dietro ogni etichetta e ogni giudizio sommario, c’era un ragazzo di 24 anni, con il suo passato e le sue responsabilità. Nessuno può arrogarsi il diritto di augurare la morte a un altro essere umano.
Questa storia ci impone un interrogativo più grande: cosa stiamo facendo per costruire una società più giusta, inclusiva e sicura? Perché indignarsi non basta. Commentare non basta. Servono azioni concrete.
Un ruolo fondamentale lo gioca l’educazione. Solo attraverso la scuola, la famiglia, le comunità parrocchiali e le istituzioni possiamo prevenire il degrado sociale e la violenza. Se vogliamo davvero cambiare il futuro, dobbiamo investire in un’educazione che insegni il rispetto, la convivenza pacifica e la responsabilità. Non possiamo lasciare che i giovani crescano con la convinzione che la violenza sia l’unica risposta.
Allo stesso tempo, è doveroso riconoscere e sostenere il lavoro delle Forze dell’Ordine, che già nella giornata di ieri avevano chiuso la prima parte delle indagini, dimostrando tempestività ed efficienza. La sicurezza non è solo un diritto, ma una responsabilità collettiva, e chi ogni giorno lavora per garantirla merita rispetto e sostegno concreto, non accuse generalizzate e pregiudizi.
Il malessere sociale che sta lacerando anche le nostre cittadine non è solo colpa delle istituzioni. È il risultato di un tessuto comunitario che si sfalda, di una società che lascia indietro i più fragili e che si accontenta di indignarsi sui social senza probabilmente impegnarsi per un vero cambiamento. Lo sanno bene quanti, ogni giorno, operano nelle associazioni del territorio e nelle Caritas, offrendo un supporto concreto a chi è in difficoltà.
La domanda è: cosa facciamo noi, ogni giorno, per costruire una comunità più unita, più sicura e più giusta?
Non possiamo aspettare che sia sempre qualcun altro a risolvere i problemi. Ogni persona esclusa, ogni giovane lasciato solo, ogni vita persa nella spirale della violenza riguarda tutti noi.
La società di oggi è il riflesso di ciò che abbiamo costruito. Ma possiamo ancora cambiarla.