(Foto AFP/SIR)

Alberto Baviera

“L’intelligenza artificiale è oggi una delle tecnologie chiave della competizione globale, al pari del controllo delle rotte commerciali o della messa in sicurezza delle catene di approvvigionamento per la produzione”. Il rischio è che “possa generare nuove asimmetrie di potere”. È l’analisi di Mireno Berrettini, professore di Storia delle relazioni internazionali all’Università Cattolica del Sacro Cuore, al quale il Sir ha chiesto di riflettere sulle dinamiche presenti e future messe in evidenza e ipotizzate per via del fenomeno “DeepSeek”, la startup cinese che, con l’inaspettato successo della sua implementazione di intelligenza artificiale a fine gennaio ha fatto scatenare il panico a Wall Street, ha aperto nuovi scenari relativi all’innovazione tecnologica e all’impatto che questa può avere anche nella geopolitica.

Professore, in che modo l’intelligenza artificiale potrà condizionare la competizione tra superpotenze mondiali?
Ci troviamo in un momento di grande cambiamento. Il sistema internazionale creato nel 1945, alla fine della Seconda guerra mondiale, e riformulato dopo il 1991, sta lentamente scomponendosi.

Al posto dell’ottimismo che ha caratterizzato gli anni della globalizzazione, stiamo vivendo un’epoca segnata da profonda incertezza. Lo sviluppo dell’AI è uno degli elementi che alimentano questo cambiamento.

Dal punto di vista di chi si occupa di relazioni internazionali e della loro trasformazione nel corso della storia, il rapporto tra AI e nuova competizione globale è sicuramente uno dei nodi cruciali. Possiamo dirlo:

l’intelligenza artificiale è oggi una delle tecnologie chiave della competizione globale,

al pari del controllo delle rotte commerciali o della messa in sicurezza delle catene di approvvigionamento per la produzione. Nel corso della storia, le potenze che hanno sviluppato – e poi controllato – le tecnologie più avanzate hanno goduto di un vantaggio sulle altre. Oggi, è l’AI che può generare nuove asimmetrie di potere. È infatti una tecnologia dual-use, con effetti sia civili sia militari, in grado di sancire il primato scientifico e, di conseguenza, politico-economico di una potenza. Questo spiega perché i principali attori internazionali stiano cercando di non perdere il treno dell’innovazione. Washington ha una posizione di leadership consolidata, grazie a realtà come OpenAI, Google DeepMind e Anthropic. D’altro canto, la Pechino che anche in questo settore tende a ridurre la dipendenza da tecnologie occidentali e proporre al mondo un ecosistema di AI alternativo a quello statunitense, ha dimostrato un’enorme capacità nel ridurre il gap tecnologico proprio con DeepSeek.

L’Europa, anche su questo fronte, sembra essere in ritardo se non addirittura spettatrice. L’intelligenza artificiale finirà per ridimensionare ulteriormente il peso del Vecchio Continente?
Cosa dire dell’Europa? Che siamo in ritardo. Nel 2024, l’Ue ha varato l’AI Act, un primo regolamento volto a normare lo sviluppo dell’intelligenza artificiale. Ma il testo, pur innovativo, non è sufficiente a rendere il Vecchio Continente un attore credibile nella nuova sfida tecnologica. Le istituzioni comunitarie non dispongono degli strumenti necessari per reagire in modo efficace, a causa della natura del processo decisionale a 27. Dal canto loro, nemmeno le singole capitali europee sono in grado di dare alcun tipo di risposta, chiuse nella prospettiva dello Stato-Nazione che si dimostra asfittica in un mondo che si va articolando su grandi spazi.

Lo sviluppo dell’AI richiede un’enorme capacità computazionale, ingenti investimenti pubblici-privati e l’integrazione tra ricerca, industria e difesa che solo la prospettiva continentale può garantire. Il posizionamento europeo, se ci sarà, dovrà necessariamente intrecciarsi con un rilancio dell’integrazione politica e strategica dell’Ue, oggi in discussione proprio nei settori della difesa e della soggettività geopolitica comune.

Ciò comporta affrontare nodi irrisolti, più volte evidenziati anche da alcuni leader del Vecchio Continente: la frammentazione degli investimenti, la debolezza nell’ambito della sicurezza militare, l’assenza di un debito comune e – soprattutto – la dipendenza tecnologica nei settori chiave. Non abbiamo Big Tech europee, mentre per quanto concerne la tecnologia del cloud, la produzione di semiconduttori, e lo sviluppo del software, siamo un mercato per altri.

Al di là dei problemi legati alla tutela della privacy, ambito per il quale l’Autorità Garante italiana è intervenuta non solo per il prodotto cinese, il servizio di chatbot DeepSeek ha fatto discutere per alcune risposte a domande “scomode”, prima date e poi censurate. In un’epoca in cui tecnologia e social network stanno già pesantemente condizionando la politica, sarà l’intelligenza artificiale la nuova arma in mano a chi vuole interferire nella vita democratica e influenzare le opinioni pubbliche?

Lo è già. L’AI non è solo uno strumento tra gli altri: è qualcosa di più, e per questo non può essere ridotta ai dispositivi classici della propaganda o della disinformazione.

Le nuove tecnologie dell’informazione, tra cui l’AI, hanno una capacità pervasiva tale da modellare direttamente la realtà, arrivando ad annullare la distinzione tra verità e menzogna in un contesto che ricorda l’incubo orwelliano. Questo rischio è evidente nei sistemi autoritari, ma anche le democrazie – in quanto società aperte – mostrano una vulnerabilità strutturale.

Non solo perché nei media democratici hanno diritto di tribuna tutte le tesi, anche quelle palesemente antistoriche, antiscientifiche, o antisistemiche, ma anche perché progressivamente nei nostri Paesi sono stati messi in discussione i meccanismi di legittimazione del credere e del pensare. Le grandi istituzioni culturali e formative, i percorsi di validazione professionale, la credibilità accademica: tutto ciò è oggi eroso da una cultura che si alimenta dalla disintermediazione mediatica. In questo contesto, le informazioni non sono più filtrate da comunità di esperti o professionisti, i dati sono spesso decontestualizzati e la conoscenza non è funzione del vero ma del consenso.

Le istituzioni internazionali vivono un momento di crisi, minate anche dalle scelte di alcune superpotenze. Anche per questo è impensabile vengano condivise regole mondiali per governare sviluppo e implementazione dell’intelligenza artificiale?
In un sistema internazionale segnato dalla frammentazione, dalla crisi delle istituzioni multilaterali e dal ritorno alla logica delle sfere di influenza,

è altamente improbabile che si giunga a un framework di regole globale, condiviso e vincolante.

Anzi, il percorso attuale è esattamente opposto,

nessuno ha reale interesse a costruire normative comuni. L’AI è stata securitizzata ed è uno degli strumenti attraverso cui gli attori internazionali ridefiniscono la propria sovranità, proiettano potere e delimitano aree d’influenza strategica.

Dall’elaborazione delle informazioni raccolte, alla costruzione di ecosistemi informatici, passando per la vendita di hardware e software, l’intelligenza artificiale consente a ciascuna Grande Potenza di proiettare influenza sui “clienti” che adotteranno quella particolare versione di AI. Da questo punto di vista, diventa

una tecnologia imperiale che spinge verso una frammentazione dell’economia globale

e una regionalizzazione dell’ordine internazionale. Con una provocazione sarcastica potremmo dire che a breve potrebbe non esistere più nulla di “globale” in senso normativo, cioè di valido per tutti gli attori.

L’intelligenza artificiale potrebbe accentuare il divario tra chi possiede tecnologie avanzate e chi ne resta escluso. Questo porterà a nuove forme di disuguaglianza economica e sociale anche tra diverse aree del mondo?
La storia ci insegna che lo sviluppo scientifico-tecnologico si distribuisce sempre in modo asimmetrico, creando nuovi centri e nuove periferie. L’AI risolverà alcuni problemi e produrrà ricchezza, ma non per tutti. La risposta alla domanda dipende molto in base a dove ci troviamo, se a Shenzhen o nella Silicon Valley, oppure a Monrovia o Giuba. L’AI potrebbe accentuare una dipendenza informatica di intere aree geografiche o di fasce della società escluse dalla trasformazione. Alle varie fratture socio-culturali già presenti, si aggiungerebbero quelle tra chi è in grado di navigare negli algoritmi e chi invece ne è oggetto-consumatore più o meno consapevole. Con ogni probabilità,

gli effetti più deleteri si concentrerebbero nel Sud globale privo di formazione tecnologica e digitale. Ma, attenzione, anche le aree che oggi consideriamo sviluppate potrebbero essere epicentro di nuove marginalità.

Quale sarà il futuro di molte professioni? Saremo in grado di gestire la riqualificazione lavorativa di chi perderà il lavoro? Le risposte forse sono troppo grandi anche per le élite politiche. Perché, a ben vedere, si va approfondendo un altro squilibrio sistemico prodotto dalla rivoluzione informatica che stiamo vivendo:

l’alterazione del rapporto tra Stato e mercato che genera una nuova asimmetria tra le istituzioni pubbliche e le grandi Corporation che guidano gli investimenti tecnologici.

Mentre le prime – deputate alla difesa del bene comune – sembrano in declino, queste ultime stanno vivendo una fase espansiva tale da superare, in prestigio e capacità d’influenza, molti Stati sovrani.

L’Information Technology – di cui l’AI è solo uno degli aspetti – e l’economia digitale hanno creato veri e propri giganti economici, che in alcuni casi sono persone fisiche, capaci di dettare l’agenda politica ed economica a livello internazionale.

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