(Foto AFP/SIR)

Di Riccardo Benotti

“La fede deve attraversare tutta l’esperienza umana”. Il card. Giuseppe Betori, arcivescovo emerito di Firenze, ricorda san Giovanni Paolo II a vent’anni dalla morte. Dalla celebre omelia del “Non abbiate paura” all’ultimo saluto in piazza San Pietro, ripercorre il legame profondo tra Wojtyła e la Chiesa italiana, l’impegno per i giovani, la centralità dell’uomo alla luce di Cristo, la svolta culturale avviata con il convegno ecclesiale di Palermo. Una guida forte, profetica, immersa nella preghiera. “Da quel rapporto costante con Dio – afferma – traeva la forza per portare la croce e testimoniare il Vangelo”.

Eminenza, nel ricordo personale che Lei conserva di san Giovanni Paolo II, qual è l’episodio o l’insegnamento che più l’ha segnata, come uomo di fede e pastore, durante gli anni della vostra collaborazione?
Il primo insegnamento che subito mi viene in mente è ovviamente legato all’inizio del suo pontificato e all’omelia pronunciata in quella celebrazione, in cui invitò l’umanità a volgere lo sguardo a Cristo, a non aver paura di lui, ad accoglierlo e ad accettare la sua potestà, a “spalancare le porte a Cristo”, perché solo lui conosce ciò che è dentro l’uomo e solo in lui l’uomo può ritrovare la sua verità. Fin dall’inizio accogliemmo dal Papa questo invito a coniugare insieme il mistero di Cristo e il mistero dell’uomo. Sarà l’orizzonte di tutto il suo magistero. All’epoca ero un giovane sacerdote, non avevo ancora nessun incarico in Cei, ma l’omelia di Giovanni Paolo II mi fece capire immediatamente in che modo la fede andasse ad attraversare tutta l’esperienza umana, tutti i problemi del mondo contemporaneo.

Un forte richiamo alla fede, al bisogno di testimoniarla, di annunciarla all’umanità in tutta la sua verità e in tutte le sue esigenze, questa è stata la cifra di tutto il suo pontificato. Ma, a questo, devo anche unire un ricordo che si colloca nel momento della morte del Santo Padre.

(Foto Siciliani-Gennari/SIR)

Quale?
Proprio quella sera, proprio in quel momento mi era stato affidato il compito di guidare il rosario in piazza San Pietro. Ho ancora vivo il sentimento di una piazza stracolma di gente che voleva dire fino all’ultimo il suo amore per un Papa tanto amato. Cinque giorni dopo fui poi chiamato a presiedere una veglia a San Giovanni in Laterano con i giovani, alla viglia delle esequie del Papa. Cercai di trasmettere ai giovani, che riempivano la basilica, un messaggio di speranza in un momento in cui tutti ovviamente eravamo segnati dal dolore del distacco, perché sentivamo che qualcuno di importante per la nostra vita ci veniva a mancare. Nell’omelia dissi ai giovani che la tristezza era comprensibile, ma non eravamo riuniti lì per cercare una consolazione per un vuoto che sia apriva nelle nostre vite o a esprimere una nostalgia per una presenza che ci aveva abbandonato: eravamo invece insieme chiamati a una grande professione di fede, a un gesto d’amore verso Giovanni Paolo II che sapevamo vivo oltre la morte, vivo in Cristo e quindi vivo tra noi.

Lei è stato segretario generale della Cei negli ultimi anni del pontificato di Giovanni Paolo II: come descriverebbe la guida che Giovanni Paolo II offriva alla Chiesa italiana in quella stagione e in che modo il Papa si relazionava con i vescovi italiani nelle scelte pastorali cruciali?
Come sottosegretario e poi segretario generale della Cei ho avuto il compito di supportare le linee pastorali del Papa, così come venivano mediate dall’episcopato italiano sotto la guida della Presidenza. In particolare, attraverso il cardinal Camillo Ruini, potevo avere il riscontro immediato della volontà di San Giovanni Paolo II per la Chiesa italiana, che peraltro si inseriva nell’orizzonte dell’evangelizzazione, che aveva connotato il cammino della Cei dopo il Concilio.

Tra i molti momenti qualificanti di questo dialogo tra il Papa e i vescovi mi piace ricordare una iniziativa che San Giovanni Paolo II volle per la Chiesa italiana: la Grande Preghiera per l’Italia indetta dal Papa per l’anno 1994 e che la Cei supportò con un’appropriata sussidiazione.

Quel che mi preme ricordare è l’immagine che il Santo Padre offrì del nostro Paese nella Lettera ai Vescovi italiani circa le responsabilità dei cattolici di fronte alle sfide dell’attuale momento storico (6 gennaio 1994). Per motivare la preghiera San Giovanni Paolo II ci ricondusse alle nostre radici e ci invitò a farle rivivere tra noi nel nostro tempo.

Che idea aveva dell’identità dell’Italia e del compito dei cattolici italiani nella società?
Le radici, l’identità dell’Italia, l’eredità da far rivivere per San Giovanni Paolo II aveva questi caratteri: una fede ancorata alla predicazione apostolica, che ha messo profonde radici nell’animo del popolo, favorendone il progresso civile; una cultura che, anche grazie alla fede, si è espressa nella letteratura, nell’arte, nelle iniziative umanitarie, nelle istituzioni giuridiche e nel tessuto vivo di usi e costumi, una cultura, ammirata nel mondo, di cui essere consapevoli e fieri; una identità di popolo unito, che, pur nelle varietà di tempi e di luoghi, forma una comunità con una precisa coscienza di sé. Tutto questo doveva indurre la Chiesa e in particolare i cattolici italiani ad assumersi le proprie responsabilità, partecipando attivamente al processo che interessava in quel momento l’Italia. Cattolici immersi nella storia, consapevoli della propria identità e pronti a spenderla a vantaggio dell’intera comunità nazionale.

Giovanni Paolo II ha insistito molto sul coinvolgimento dei giovani nella vita della Chiesa, e Lei ha avuto un ruolo di primo piano nell’organizzazione della Giornata mondiale della gioventù del 2000 a Roma. Cosa le ha insegnato quell’esperienza straordinaria accanto al Papa e quale messaggio dei giovani portava nel cuore Giovanni Paolo II per la Chiesa del nuovo millennio?
Anzitutto l’intuizione che non bisognava aspettare che i giovani venissero alla Chiesa, ma era la Chiesa che doveva andare ai giovani. Giovanni Paolo II è andato a cercare i giovani e li ha chiamati da ogni angolo della terra.

Le Giornate mondiali della gioventù erano un segno di questa attenzione della Chiesa verso i giovani, considerati come soggetti con i quali stabilire un dialogo.

Questo era lo spirito di queste Giornate, per cui esse si collocavano all’interno di un percorso di incontro della Chiesa con i giovani: c’era un prima e c’era un dopo le Giornate, come peraltro accade ancora adesso. La Gmg non era una kermesse, ma un punto qualificante di un cammino formativo.

Entra a far parte della Community de L'Ancora (clicca qui) attraverso la quale potrai ricevere le notizie più importanti ed essere aggiornati, in tempo reale, sui prossimi appuntamenti che ti aspettano in Diocesi.

0 commenti

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *