Di Gigliola Alfaro

Medici con l’Africa Cuamm da anni si spende accanto alle mamme e ai bambini, nel momento del parto, per combattere la malnutrizione e garantire cure e vaccinazioni anche in zone isolate del Continente. In occasione del Giubileo degli ammalati e del mondo della sanità don Dante Carraro, direttore del Cuamm ed egli stesso medico, ci racconta l’impegno suo e dell’ong in Africa nell’ottica della speranza e del Vangelo.

(Foto: ANSA/SIR)

Cosa significa essere medico in Africa?

Quando si è medico nel contesto africano sente più forte quella unità che Gesù ha vissuto nel suo essere Figlio di Dio e nel suo essere uomo, cioè, da una parte, guarire per la forza della misericordia del Padre e quindi la dimensione più divina, dall’altra, curare i mali del corpo. In Africa queste due dimensioni, quella corporale e quella più spirituale, si fondono in maniera fortissima. Quando curi una ferita e sei lì che cerchi di pulirla senza creare tanto dolore nel paziente, quando cerchi di dare dei punti perché c’è stata una lacerazione da incidente o da morso di serpente o da quello che può capitare nella vita quotidiana,quell’esercizio che è fisico di curare la ferita per quella persona per te diventa anche un gesto profondamente di amore, probabilmente perché senti che se non ci fossi tu il paziente si sentirebbe abbandonato.E quell’abbandono fisico diventa anche abbandono spirituale. Quando invece c’è quella cura, la persona sente che quella cura, fisica, sanitaria, medica – mettere punti, disinfettare – è una dimensione di amore. Una mamma, un papà, un bambino africani sanno che se non fosse per amore un medico non sarebbe là accanto a loro. Quindi, è più facile questa identificazione:

essere medico in Africa vuol dire davvero essere espressione di quel Gesù che è stato Figlio di Dio e Salvatore, ma anche medico perché ha curato tanti paralitici, epilettici, sordi, muti.

Essere medico in Africa è bello e ricco per questo.

Il Cuamm come porta concretamente la speranza in Africa?

Il progetto più concreto con cui cerchiamo di portare speranza è andando a colpire il collo di bottiglia della salute africana, che è espresso da due indicatori: la mortalità da parto e la mortalità dei bambini.Tante mamme giovani muoiono di parto e c’è un’alta mortalità infantile. Il segno di speranza lo portiamo concretamente intervenendo su questi due aspetti, avendo dichiarato ormai da una quindicina d’anni la nostra priorità è costituita proprio da mamme e bambini.Credo che quel Gesù del Vangelo non possa accettare che ancora oggi, nel 2025, nel Continente africano ci siano 280mila mamme che muoiono di parto. Il parto non è una malattia, il proprium del parto è mettere alla luce un bambino senza perderla la propria vita, allora il nostro impegno vicino alle mamme da una parte e dall’altra vicino al neonato, quando la mamma partorisce, è il segno più concreto di quella speranza che diventa vita, concretezza, un gesto di vicinanza nel momento più prezioso della vita di una famiglia, che è quella di dare alla luce un bambino. Ed è diffusissimo in Africa che ci siano tanti parti, la speranza concreta che la gente sente è che nel momento più cruciale della vita della famiglia c’è quell’operatore del Cuamm che, con tante fatiche, si sforza di accompagnare quella mamma perché possa essere un parto di gioia e di vita vera e non un parto di morte e di disperazione. Perdere una mamma di malattia è duro ma ci sta, perdere una mamma di parto è un dolore che toglie il cuore.

Quali speranze avete come Cuamm per l’Africa oggi?

La speranza che abbiamo è che possano essere date più opportunità.

Il Continente africano non chiede la carità, ma opportunità di crescita. Penso ai tanti giovani e alle tante giovani che hanno voglia di studiare e non hanno l’opportunità di studio, anche nell’ambito sanitario. Noi abbiamo quattro scuole di formazione per infermieri e ostetrica e una Facoltà di Medicina presso l’Università cattolica del Mozambico: l’impegno è proprio quello di dare opportunità a questi giovani. Tante volte i giovani africani mi chiedono di avere l’opportunità di studiare, di diventare bravi infermieri e ostetriche, bravi medici, di crescere, di essere anche loro protagonisti della storia del loro Paese. Rispondere a questa domanda di opportunità va fatto con l’impegno di tutti: sono Paesi poverissimi e chiedono non la carità, ma l’opportunità di crescere. Nei Paesi africani in media si attesta attorno ai 35-40 dollari pro capite la spesa all’anno per la salute, in Italia è 3.500 dollari. Quello che spero è che i Paesi ricchi possano essere attenti a questo grido dei giovani: ci lamentiamo delle migrazioni, ma i ragazzi giovani migrano perché cercano opportunità di crescita, opportunità di sviluppo, hanno voglia di essere indipendenti. Allora, la speranza che mi porto dentro per l’Africa nel suo insieme è dare queste opportunità.

I tagli ai fondi Usaid stanno già avendo effetti negativi nel vostro impegno in Africa?

Questa dell’amministrazione americana è stata una scelta molto brutta. Faccio un esempio concreto sulle ricadute di tale scelta: noi abbiamo un progetto in Uganda a supporto di mamme e bambini. Da quando il presidente Trump ha firmato quel decreto di blocco dei fondi Usaid è arrivata una comunicazione il giorno dopo, con una rapidità impressionante, senza preavviso e senza la possibilità di adattarsi o individuare strade diverse, con l’obbligo di bloccare ogni attività finanziata con i fondi Usaid. Questo in Uganda significa che le vaccinazioni fatte ai bambini l’anno scorso nel 2025 non potremo farle. Nel 2024 abbiamo fatto 74mila vaccinazioni e i vaccini servono per salvare la vita dei bambini, perché il tetano uccide, il morbillo uccide, la difterite uccide.

Il taglio ai fondi Usaid va a toccare proprio le popolazioni più fragili.

Va bene migliorare qualche organismo come Usaid, ma non chiuderlo così, perché l’anno scorso Usaid ha dato all’Africa tutta insieme 43 miliardi. Se si blocca improvvisamente, senza possibilità di recuperare 43 miliardi, è ovvio che l’impatto è pesantissimo.

Quale frutto auspica che venga per il mondo sanitario e per l’Africa da questo Giubileo della speranza?

Auspico che sia un Giubileo di liberazione davvero, che vuol dire speranza: liberazione da tante catene che tengono legati questi Paesi. Vedo ancora tanto interesse nei confronti dell’Africa, perché ci sono le materie prime, ma si sta riducendo la solidarietà o la cooperazione a scambio commerciale, non ci si vergogna neanche di dire: “Io prima e tu dopo”. Una volta dopo un’affermazione come questa sarebbe stato obiettato: “Ma come fai a costruire un mondo basato su questo concetto?”. Invece, adesso si dice con tranquillità. Abbiamo bisogno del Giubileo per portare il coraggio del cuore per invertire questa rotta, per dire che esiste questa possibilità e noi vogliamo opporci a una mentalità che vede nell’altro, sia Paese sia persona, un qualcosa da sfruttare e da commercializzare, invece che un fratello. La solidarietà è l’unica in grado di fare in modo che il futuro si possa costruire insieme. Ed è la speranza che mi porto.Dobbiamo costruirlo questo futuro, ma non ci sono altre strade se non quella di costruirla insieme. Siamo tutti nella stessa barca, come dice Papa Francesco, ed è estremamente vero, in particolare per il mondo sanitario.

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