Di Bruno Desidera

A poco più di un anno di distanza dalla dichiarazione dello stato d’emergenza e dalla militarizzazione, di fatto, del Paese, decise dal presidente Daniel Noboa, alla vigilia di un delicato ballottaggio per le elezioni presidenziali, l’Ecuador è nella stessa situazione di prima. Anzi, violenza e omicidi sono a livelli record. Impressionanti i dati di Guayaquil, la prima città del Paese per popolazione, il cui porto, sulla foce del fiume Guayas, che sbocca nel Pacifico è ormai il punto di partenza delle principali rotte mondiali del narcotraffico. In febbraio, nella metropoli, secondo i dati ufficiali del Governo, si sono registrati 218 omicidi, su un totale di 470 nel Paese. In pratica, 8 al giorno. Nello stesso mese del 2023 erano stati 186, lo scorso anno 89. Numeri che temono pochi confronti, perfino le città messicane più violente.

In cerca delle cause profonde. La militarizzazione fino con l’aggiungere violenza a violenza, portando nuove forme di terrore, come le esecuzioni extragiudiziali e le sparizioni forzate. Al fenomeno assiste con crescente preoccupazione l’arcivescovo di Guayaquil, il cardinale Luis Gerardo Cabrera Herrera, che al Sir denuncia i limiti di una politica basata sulla militarizzazione del territorio: “I mezzi legali e militari di repressione o controllo, se non sono accompagnati da sistemi di educazione e mediazione per la risoluzione di tensioni e conflitti, sono in pratica insufficienti e persino controproducenti. In altre parole, non si tratta solo di eliminare gli effetti sociali, ma di andare alle loro cause e, da lì, proporre soluzioni valide che aiutino le persone a vivere con dignità e, di conseguenza, la violenza scomparirà gradualmente. In questo senso, abbiamo molte organizzazioni governative e non governative che hanno unito le forze per garantire che le persone abbiano un luogo protetto, ad esempio dal traffico di esseri umani e dal reclutamento da parte di bande criminali”. Andare alle cause profonde di questo stato di cose, significa anche percorrere a ritroso la storia della città. “Dai dati in nostro possesso – continua l’arcivescovo -, questa situazione sociale si è creata da molti decenni. Il problema principale è l’estrema povertà in cui vivono centinaia e migliaia di persone nelle baraccopoli della città di Guayaquil, note come guasmos, nei sobborghi, e, a nord, nel Monte Sinai. La povertà non permette ai suoi abitanti di avere un lavoro adeguato. Le famiglie, e in particolare i bambini e gli adolescenti, crescono, in queste condizioni, quasi nell’isolamento. I Governi al potere, sia nazionali che locali, si presentano quasi esclusivamente in occasione delle elezioni, offrendo quelli che vengono chiamati bonus o sussidi. In questo contesto sociale, il traffico di droga e, purtroppo, il consumo di droga, la prostituzione infantile o adulta appaiono più facilmente come le principali fonti di reddito. Con il passare del tempo, si sono consolidati e confrontati gruppi armati che controllano i mercati per la vendita e il consumo di droga”. Attualmente, ricorda il card. Cabrera, “la situazione è peggiorata con l’estorsione o richieste di ‘pizzo’ a piccoli, medi e grandi commercianti, motivo per cui molte attività commerciali hanno chiuso e i loro proprietari sono emigrati all’interno del Paese o all’estero. Come si può vedere, si tratta di una situazione molto. Come Chiesa abbiamo creato spazi sicuri nelle nostre parrocchie e negli istituti scolastici, in modo che le famiglie possano almeno respirare un po’”.

Più violenza, meno diritti umani. La complessità della situazione viene confermata al Sir da un esperto, il sociologo Billy Navarrete Benavides, direttore del Comitato permanente per la difesa dei diritti umani (Cdh) di Guayaquil. “La situazione, nel Paese e in particolare nella nostra metropoli, è spiegabile con scelte che vengono da lontano. Risale al 2010, durante la presidenza di Rafael Correa, un modello carcerario che passò totalmente in mano allo Stato, rinunciando al monitoraggio e ai progetti della società civile. Un sistema che finì per venire meno, e lasciò il posto, durante le presidenze di Lenin Moreno e Guillermo Lasso, alla trascuratezza. Un vuoto riempito dalle bande criminali, che nel frattempo hanno preso potere, grazie ai rapporti con i cartelli messicani e le mafie albanesi e grazie all’aumento del narcotraffico e delle estrazioni minerarie illegali. Ecco, allora, le 680 persone uccise durante gli scontri nelle carceri negli ultimi anni, oltre 500 solo a Guayaquil”. Di fronte alla violenza ormai esplosa, soprattutto lungo il litorale del Pacifico, è arrivata la risposta del presidente Daniel Noboa, un “pugno di ferro” contro la criminalità, che non ha avuto gli effetti sperati. Oggi, spiega Navarrete, “assistiamo a una violenza sociale mai vista in tutta la storia. L’esercito può operare in forma autonoma, e non ausiliare alle forze di polizia. Oltre agli omicidi delle bande criminali, abbiamo cominciato ad avere esecuzioni extragiudiziali, sparizioni forzate, violenze sessuali nelle carceri”. Tutte situazioni documentate dai rapporti del Cdh. Insomma, “la mano dura assoluta non ha ridotto la violenza, dato che la riduzione degli omici è durata solo quattro mesi, e ha provocato pesanti violazioni dei diritti umani”. Ora, si attende chi sarà presidente della Repubblica, tra l’uscente Daniel Noboa e la candidata della sinistra, Luisa González, espressione della sinistra di Rafael Correa, nel ballottaggio del 13 aprile. “Non vediamo una grande differenza”, conclude Navarrete, al di là di una maggiore propensione a interventi di politica sociale da parte della candidata progressista.

Intanto, sul “campo”, resta la Chiesa. Ridiamo la parola al card. Cabrera, che spiega: “Come arcidiocesi di Guayaquil, abbiamo dieci progetti di natura sociale, volti ad alleviare queste situazioni strazianti. Ad esempio, abbiamo tre reti di dispensari medici che, ogni anno, accolgono più di 900.000 persone. Una rete educativa che si impegna al massimo per servire più di 12.000 bambini e adolescenti. Un banco alimentare che distribuisce cibo a più di 47.000 persone ogni mese. Un centro di riabilitazione per giovani adolescenti tossicodipendenti. Un centro di accoglienza per persone di strada abbandonate da familiari e amici. Un centro di accoglienza per famiglie di migranti, con la collaborazione di istituzioni pubbliche. Una casa di accoglienza per persone affette da Hiv. Una casa dell’imprenditorialità per giovani e adulti. Un fondo di risparmio e credito per le famiglie che hanno un’attività in proprio. In ognuno di questi centri, oltre ai servizi sanitari e formativi, offriamo loro anche alcune risorse pedagogiche, affinché le persone imparino a risolvere le loro tensioni e i loro conflitti attraverso il dialogo e la mediazione. Siamo consapevoli che tutti questi sforzi sono ancora piccoli, ma se uniamo le forze con altre istituzioni pubbliche e private, possiamo offrire un servizio di qualità. In questo modo vogliamo contribuire a ridurre i tassi di violenza, soprattutto attraverso la prevenzione e la riabilitazione sociale”.

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