
Di Daniele Rocchi
“Attraverso l’istruzione possiamo veramente costruire ponti e promuovere l’integrazione”: ne è convinta Mouna Maroun, Rettrice dell’Università di Haifa, che, ieri a Roma, ha incontrato diplomatici e membri delle università pontificie e italiane, in una conferenza promossa dall’ambasciata di Israele presso la Santa Sede. Prima donna araba, cattolica maronita, a guidare un ateneo israeliano, Maroun proviene dal villaggio di Isfiya, sul Monte Carmelo: “Mio nonno è immigrato in Israele dal Libano e la mia famiglia non era benestante. Sin da piccola, sapevo che, se avessi voluto fare qualcosa per me stessa, avrei dovuto studiare duramente”. “Determinata a fare la differenza” Maroun è stata anche la prima araba a conseguire un dottorato in neuroscienze, divenendo una neurobiologa di fama internazionale Forbes l’ha inserita tra le prime 50 donne più influenti nel Paese.
Università, laboratorio di dialogo. Dallo scorso ottobre, da quando il Senato accademico l’ha nominata rettrice, Maroun ha lavorato per rendere il suo ateneo un laboratorio di dialogo, di convivenza, in “un luogo dove non esistono minoranze”. “È noto – ha spiegato – che in Israele il 21% della popolazione è costituito da arabi. Questo dato, nella mia università, sale al 45% per via del fatto che l’ateneo si trova nel nord di Israele, dove la popolazione araba è maggioritaria. E quando si è quasi in equilibrio, si è obbligati a convivere. E la convivenza si realizza quotidianamente. Bisogna essere umani: questi sono i valori con cui sono cresciuta. Questi sono i valori dell’Università di Haifa”.

Foto ANSA/SIR
Trauma collettivo. Un vero e proprio antidoto alla polarizzazione della società israeliana traumatizzata dopo il 7 ottobre 2023, quando Hamas attaccò Israele, provocando 1.400 morti, 240 ostaggi, centinaia di feriti. “Dopo il 7 ottobre, abbiamo attraversato momenti molto intensi e difficili – ha ricordato la rettrice che studia il funzionamento del cervello umano –. È stato un trauma collettivo la cui memoria si radica profondamente, in modo immediato, ed è destinata a permanere a lungo, spesso per tutta la vita. Non si dimentica: resta latente, annidata nel profondo della mente”. “Ogni israeliano, ebreo o arabo che sia – ha aggiunto – ricorda nitidamente quel momento, segnato dallo sgomento di fronte alle notizie provenienti dal sud di Israele.
Il trauma è stato immenso per gli ebrei, vittime di un massacro mirato alla loro identità. Ma il trauma, paradossalmente, è stato ancora più profondo per gli arabi israeliani, costretti a confrontarsi con l’orrore compiuto, stupri, omicidi, rapimenti, da coloro che sentivano appartenere, per lingua o cultura, alla propria stessa gente”.
“Hamas non ci rappresenta”. Da Maroun è arrivata una parola forte e decisa: “Nessun sostegno ai terroristi da parte degli arabi israeliani che rifiutano Hamas e la sua ideologia tanto quanto gli ebrei. Abbiamo pianto per le vittime israeliane, molte delle quali erano arabe, così come per gli ostaggi. Al contempo, proviamo dolore per i civili innocenti di Gaza. Questo duplice sentire è stato difficile da comprendere per alcuni: molti ebrei israeliani pretendevano che si prendesse una posizione netta, che si scegliesse un solo campo”.
“Ma io credo che si possa e si debba essere capaci di piangere entrambe le tragedie”.
“Per molti ebrei israeliani – ha rimarcato la rettrice – il 7 ottobre ha significato la fine della fiducia nella protezione dell’esercito, la percezione che il ‘mai più’ si fosse infranto. Per noi arabi israeliani, invece, è stata una frattura interiore: il dolore per le vittime ebraiche e per gli ostaggi, insieme al dolore per gli innocenti di Gaza, entrambi autentici, entrambi legittimi.
Non si deve scegliere tra essere ebrei o arabi per provare orrore di fronte al male; basta essere umani”.
“Ponti, non muri!” E su questa convinzione che nell’Università di Haifa oggi “si lavora per costruire ponti e non muri. Abbiamo avviato laboratori di dialogo: prima tra arabi ebrei separatamente, poi tra di loro. Il nostro intento era che, prima di dialogare con l’altro, ciascuno imparasse a riconoscere le proprie ferite. Molti studenti hanno desiderato confrontarsi, manifestando empatia per il dolore altrui. Abbiamo stabilito regole chiare: si può esprimere il proprio dolore, ma non si può giustificare la violenza terroristica di Hamas, così come non si può invocare la distruzione di Gaza o la morte dei palestinesi”. In questo percorso anche le religioni giocano un ruolo importante: “Abbiamo rafforzato il nostro centro di dialogo interreligioso, coinvolgendo i leader musulmani, cristiani ed ebrei della città di Haifa. Pur sentendomi orgogliosamente cristiana, ritengo che noi cristiani, non essendo parte diretta del conflitto, possiamo offrire un contributo neutrale alla riconciliazione. Dopo numerosi incontri e percorsi formativi, i leader religiosi, rabbini, preti, imam, hanno firmato una dichiarazione solenne di impegno al dialogo e alla pace, anche nei momenti di massima tensione”. All’Università di Haifa gli ebrei con la kippah, gli islamici con il velo e i cristiani con la croce dimostrano che la religione non è sicuramente un ostacolo alla convivenza, e così “il campus è rimasto un luogo sicuro e tranquillo”.
Ma il cammino è ancora lungo. Maroun ha definito “un errore” il boicottaggio da parte di alcune università europee e statunitensi, spiegando che in Israele le università svolgono un ruolo significativo nella mobilitazione sociale: “Stiamo costruendo ponti con il dialogo, il boicottaggio alza i muri, è all’opposto della conoscenza, poiché la scienza, come le religioni, deve costruire ponti. Gli atenei non fanno politica e non possono cambiare la politica” degli Stati. Le università, ha concluso, sono “luoghi di integrazione delle minoranze. Andiamo avanti convinti che solo attraverso il dialogo sincero e la reciproca empatia si possa sperare in una pace duratura”.
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