Foto Calvarese/SIR

Di Pablo Requena

Nel 1992, il medico e scrittore Colin Douglas affermava sul British Medical Journal che il “movimento hospice è troppo buono per essere vero, e troppo piccolo per essere utile”. Se trent’anni fa erano pochi coloro che avevano familiarità con i concetti di hospice e cure palliative, oggi questi termini sono entrati nel vocabolario comune. Tuttavia, per la maggioranza delle persone rimangono realtà sconosciute, non avendo avuto un’esperienza diretta con il lavoro che si svolge in queste strutture.

Le pioniere delle cure palliative. La medicina palliativa affonda le proprie radici nell’impegno straordinario di una pioniera come Cicely Saunders, fondatrice del St. Christopher’s Hospice di Londra, insieme a figure come Jeanne Garnier, Mary John Gaynor, Rose Hawthorne Lathrop e Florence Nightingale. Queste professioniste sanitarie, operanti su entrambe le sponde dell’Atlantico, hanno forgiato un approccio all’assistenza in cui, accanto all’elevata professionalità delle cure, si poneva al centro la persona malata nella sua interezza. Questa rivoluzione avveniva proprio mentre la medicina stava attraversando cambiamenti radicali grazie ai progressi delle scienze biomediche e all’introduzione massiccia della tecnologia in ambito terapeutico. All’inizio del XX secolo non esistevano antibiotici, respiratori, apparecchiature per dialisi, trapianti e tantomeno la possibilità di modificare il genoma umano. Questi straordinari avanzamenti hanno significato un impressionante ampliamento delle capacità terapeutiche, ma hanno anche sollevato nuovi interrogativi etici sulla gestione di tale potenziale e sulla distribuzione delle risorse limitate, dando origine alla bioetica. Parallelamente, l’invasione di macchinari, tecniche chirurgiche e farmaci hanno posto il medico in una posizione in cui la complessità tecnica rischiava di offuscare la visione del paziente come individuo con una propria storia, nella quale la malattia irrompe frammentando la biografia personale. Non si tratta di idealizzare la figura del medico pre-tecnologico, immaginandolo sempre cordiale e attento alle necessità del paziente rispetto all’attuale, ma è innegabile che la fiducia della popolazione verso questa categoria professionale sia notevolmente diminuita.

Un’altra faccia della medicina moderna. Queste considerazioni ci aiutano a comprendere l’importanza della medicina palliativa, che oggi rappresenta probabilmente il volto più umano dell’assistenza sanitaria. Da qui è nata l’idea di organizzare, in occasione del Giubileo degli Ammalati e del Mondo della Sanità, un incontro sulle cure palliative come luogo della speranza (l’attività si è svolta lo scorso sabato 5 aprile presso la Pontificia Università della Santa Croce, ndr). Queste ultime svolgono un ruolo sempre più centrale nell’accompagnamento dei malati cronici e non sono riservate esclusivamente al momento della morte. È altrettanto vero, però, che la possibilità di morire con il supporto delle cure palliative cambia radicalmente l’esperienza del fine vita, come può testimoniare chi ha vissuto questa realtà con un proprio caro.La medicina a livello istituzionale ha sempre attribuito grande importanza alla cura del paziente cronico, soprattutto nell’approssimarsi al fine vita. L’Associazione Medica Mondiale approvò nel 1983 la Dichiarazione di Venezia, successivamente aggiornata a Pilansberg (2006) e a Berlino (2022). In essa, ribadendo l’impegno del medico nell’offrire le terapie più efficaci, si sottolinea l’importanza di saper rispondere agli aspetti fisici, psicologici, sociali e spirituali della persona con malattia terminale. È precisamente questo l’approccio multidisciplinare delle cure palliative, che accompagnano con professionalità e umanità non solo il paziente, ma l’intero nucleo familiare.

 L’Eutanasia non è la soluzione. Nel dibattito attuale sul fine vita e sulle normative relative al suicidio assistito, ci troviamo di fronte a un bivio cruciale per la medicina e l’intera società. Sarebbe un errore se, per risolvere alcuni casi estremi mediatizzati, la società imboccasse la strada della morte procurata come soluzione alle difficoltà del fine vita. Per la medicina è evidente che questa non rappresenta la via da seguire. La stessa Dichiarazione di Venezia afferma che “l’Associazione Medica Mondiale si oppone fermamente all’eutanasia e al suicidio assistito”. Le esperienze di paesi come Olanda, Belgio e Canada dimostrano chiaramente come pratiche inizialmente introdotte per “risolvere” rarissimi casi estremi siano diventate modalità abituali di finire la vita. Le cure palliative offrono invece un’alternativa completamente diversa, capace di trasformare l’ultima fase della vita in un percorso ricco di significato, in cui tutti sono coinvolti. È questa realtà che porta i familiari di oggi a ripetere quanto affermava Douglas sul movimento hospice trent’anni fa: “è troppo buono per essere vero”. Auspichiamo che iniziative come quella organizzata in occasione del Giubileo dei malati e del personale sanitario possano contribuire a scongiurare la seconda parte della sua frase: purtroppo è “troppo piccolo per essere utile”.

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