Foto Calvarese/SIR

Alessandro Di Medio

Si avvicina uno dei giorni più belli e temuti da noi poveri parroci… la Domenica delle Palme.

Uno dei più belli, perché mai come in questo giorno la comunità risplende in pienezza: la chiesa strabocca di partecipanti, il quartiere si anima con le processioni che lo attraversano come un vitale flusso sanguigno rosso e verde (con gli immancabili megafoni gracchianti), e tutti ascoltano almeno in questa Domenica la buona notizia dell’amore di Dio per noi, a lungo e nel dettaglio, attraverso il racconto della Passione del Signore animato da più voci.

Uno dei più temuti, perché proprio la misteriosa polarizzazione, che attrae in chiesa per questa solennità praticamente tutti, attira puntualmente anche una categoria molto particolare di “fedeli occasionali”: i cacciatori di palme.

Li vedi comparire tra una Messa e l’altra, oppure nel mezzo della celebrazione stessa, con fare circospetto, alla ricerca di ramoscelli d’ulivo da arraffare e portare via con la rapidità di gazze, ignari e indifferenti a quanto nel frattempo si sta svolgendo nel mistero davanti alle centinaia di persone lì presenti.
Se non ne trovano, seccati ti aspettano al varco, e stai ancora scendendo i gradini dell’altare che si fiondano: “Padre, ci sono le palme?” Oppure “Padre scusi, ma i rami d’ulivo non ci sono?”
E tu provi a spiegargli a denti stretti con infinita carità pastorale che i rami vengono benedetti all’inizio della celebrazione per essere portati in processione, e che quindi forse sono finiti perché li ha presi chi a Messa c’era, oppure li esorti a partecipare alla Messa seguente, in cui avranno modo di riceverli nel loro senso più pieno, ecc.
Inutile.

Ci sono battaglie che non vale la pena combattere, e quella del buon senso (e del senso liturgico) contro i cacciatori di palme è tra queste.

Ricordo un signore che arrivò a dirmi: “Ma come?!? Sono persino venuto a Messa [arrivando dopo la comunione, n.d.r.] per prenderli, e sono finiti?”
Tipicamente mediterranea è la variante matriarcale di tale tipologia: “Sa, li prendo anche per i miei parenti, che in chiesa non ci vengono.” “Signora, scusi, ma perché piuttosto non li esorta a venire alla prossima Messa? Così li prendono loro… sennò a che serve?” “Tanto non ci vengono,” taglia di solito corto l’altra, afferrando un cospicuo cespo di rametti e girando i tacchi.
Per non parlare della versione etno-antropologica: li vedi (non scherzo) strappare i rami dagli ulivi piantati nel giardino della chiesa, oppure smontare le decorazioni in chiesa fatte con le palme, e con sconcerto fai notare che quelli non sono “i rami benedetti”, e loro ti rispondono che non fa niente, tanto basta “il simbolo”. Frazer e Otto non avrebbero nulla da eccepire.

Io negli anni, dopo infinite ulcere liturgiche e il rischio di vari crolli emotivi, ho risolto così: quando, all’inizio della processione, si benedicono i rami d’ulivo, una schiera di giovani presenta al contempo numerosi cesti di analoghi rami che vengono benedetti insieme a quelli in mano ai fedeli, e da questa buona scorta li distribuiscono, con un sorriso amichevole, ai passanti che incrociano tra l’attonito e l’apatico il corteo, e poi li lasciano in fondo alla chiesa, in pasto ai cacciatori affamati che prima o poi si presenteranno.

Perché in fondo, suvvia, il nostro è un Dio generoso, che non sta a guardare il dettaglio, e se uno vuole un ricordo, per quanto effimero come un rametto reciso, del giorno che rievoca la Passione di Gesù per tutti noi (anche per i cacciatori di rami), chi siamo noi preti per impedirglielo?
La gente ci chiama “padri”: a volte un papà non può fare altro che pazientemente sopportare i capricci e le incomprensioni dei suoi figli più (spiritualmente) piccoli, consolandoli come meglio può con qualche balocco. C’è il tempo della formazione e della consapevolezza, ma non sempre, e non per tutti allo stesso modo – e per qualcuno, a volte, quel rametto è il solo appiglio con cui rimane aggrappato alla Chiesa.

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