
Sorelle Clarisse del Monastero di Aulla
Il Tempo di Quaresima volge al termine e ci avviciniamo a grandi passi a quei giorni che ci immergono nella luce intensa dei misteri più sacri della nostra fede, quelli della Passione e della Risurrezione, che sono il compendio della nostra redenzione e il fondamento delle nostre speranze. In questo “tempo forte” la Chiesa ci ha invitato e guidato a vivificare la nostra fede, a mantenerci vigili nel raccoglimento e nel fervore, nella mortificazione, attraverso le opere di carità spirituali e corporali.
Quest’anno la Domenica delle Palme vede il “Passio” dell’evangelista Luca introdurci nel mistero dei misteri, quello dell’amore insondabile di un Dio che ha voluto assumere la nostra carne umiliandosi fino alla morte di croce per restituirci la dignità originaria perduta con il peccato, quella dignità che ci ha “fatto poco meno degli angeli” e “di gloria e di onore ci ha coronato” (Salmo 8).
Con l’ingresso del Signore Gesù a Gerusalemme ci si apre la successione dei momenti più crudi e drammatici che, in un continuo crescendo, porteranno dall’arresto del Re mite e umile, evidentemente il Messia, l’Unto – non accolto a causa della rivoluzione “eccessiva” che il suo amore stava innescando – fino alla sua crocifissione e morte.
Si manifestano in modo eclatante le contraddizioni profonde dell’uomo, che inizialmente osanna la regalità del Figlio dell’Uomo vittorioso al suo ingresso a Gerusalemme, agitando rami di palma e stendendo i mantelli al suo passaggio, e poi subito dopo lo rinnega con il voltafaccia più sfrontato!
Ed è proprio la regalità di Cristo a costituire la “porta” che ci introduce nel sacro triduo.
Ma di quale regalità si tratta? Il canto del Passio ci mostrerà il Signore coronato di spine, oltraggiato, mite, silenzioso…
Specchiandoci in Lui, possiamo domandarci: i nostri desideri di regnare, dominare, primeggiare, hanno qualcosa a che fare con questo tipo di regalità? È nel Sacro Triduo che essa sarà mostrata al nostro sguardo commosso in tutta la sua evidenza.
Il Giovedì Santo, infatti, contempleremo la regalità di colui che si fa pane per la nostra fame, del Sacerdote Eterno che immola se stesso in sacrificio per la nostra salvezza, del Figlio di Dio che lava i piedi agli uomini, e ci affida la sua ultima volontà: “Amatevi come Io vi ho amato”. I sentimenti che ci accompagneranno in questo primo giorno saranno perciò di immensa gratitudine per questi doni scaturiti dall’amore infinito di un Dio che si è chinato sulla miseria di ognuno di noi.
Il secondo giorno del sacro triduo, il Venerdì Santo, tutto incentrato sull’annichilimento del Redentore e sui dolori di Maria Santissima, ci spinge a contemplare i dolori di Gesù con gli occhi della Madre, e i dolori di Maria con gli occhi del Figlio. I loro cuori, così indissolubilmente uniti, pativano uno le angosce dell’altro, perché non erano concentrati sulla propria sofferenza, ma la loro mente, la loro anima: tutta la loro persona era proiettata sul dolore dell’altro, senza potersene distaccare.
Il cuore di Maria era un cuore di madre, dilaniato da ciò che pativa il Figlio, privo di conforto, oppresso dal dolore, e dal dolore di non poter morire al posto del Figlio amato; mentre lo strazio di Gesù era di non poter consolare minimamente la madre sua, perché anche la più piccola sofferenza da lui vissuta si ripercuoteva nel cuore dell’addolorata in maniera trafiggente. Solo l’amore teneva ancora in vita il figlio e la madre.
Non è difficile meditare su questo mistero, se si pensa al dolore di una qualsiasi mamma che vede morire il proprio figlio di una morte violenta e infame, e deve assistere alla sua sepoltura, come Maria nel Sabato Santo. Il dolore, le lacrime, i gemiti repressi che dilaniavano il petto dell’Addolorata possono perciò essere almeno lontanamente intuiti da ogni madre, o da chi abbia un cuore di madre. Il Sabato Santo è dunque il giorno della desolata: il giorno del silenzio, della riconoscenza e dell’attesa con Maria, dell’adorazione del nostro Signore addormentato nella morte, dell’umile e totale offerta di tutti noi stessi. È un giorno in cui l’attesa è colma di speranza, e di una speranza certa, perché l’alba della Resurrezione già risplende. E questo non è un mistero lontano o astratto: se in questo momento ti trovi a vivere nella sofferenza, nel dolore, sappi che puoi attingere tutta la forza, l’amore, la vicinanza, la tenerezza del cuore di una madre che ti comprende fino in fondo e ti aiuta a sollevare il tuo sguardo verso la luce. Infatti, da quando il suo figlio divino ha disceso l’abisso, squarciando le tenebre della morte, non c’è una situazione così buia da non lasciare speranza.
Commemorare questi santi misteri non significa, dunque, fare solo un ricordo: è invece rivivere con Gesù e Maria tutto il mistero della nostra redenzione e rendere attuali tutti i meriti e le grazie che il Signore ci ha acquistati con il suo sacrificio. È un meditare la Passione del Dio Uomo non tanto con la mente, quanto con l’affetto del cuore, e ciò produce frutti copiosi di grazia, che ci ritroveremo per l’eternità, perché il compatire i dolori della madre è cosa graditissima al Signore, è far vibrare la corda più sensibile del suo cuore, che ama la madre sua in maniera incomprensibile a mente umana.
La compassione, l’amore, la riparazione che oggi offriamo al Signore e alla madre sua li hanno realmente raggiunti e hanno portato un raggio di consolazione alle loro sofferenze, alle quali noi ci siamo così resi contemporanei, trovandoci presenti nell’orto, sotto la croce, al sepolcro…Ciò è possibile per un mistero di Dio, che è al di fuori del tempo. Così come per un mistero di Dio in ogni Messa viene riattualizzato il sacrificio di Cristo e noi tutti ci troviamo realmente presenti sul Calvario.
Non è necessario dunque cercare chissà dove qualcosa da meditare per questa Settimana Santa: la cosa più opportuna è attenersi alla narrazione evangelica, con spirito di profonda adorazione, umiltà e tanta preghiera, che ci porteranno a una vera e propria “contemplazione” delle scene della Passione.
Non diamoci pace, dunque, finché non avremo ricevuto questo amore, e supplichiamo la Vergine pura e dolorosa: “Fac ut ardeat cor meum in amando Christum Deum”. E poiché il Corpo di Cristo (che è la Chiesa e l’umanità tutta) è dilaniato dalle nostre divisioni, misureremo il nostro amore per lui dall’unità con i nostri fratelli, dalla comunione profonda che sapremo stabilire da cuore a cuore. Sarà questa la più gradita riparazione da offrire al Corpo straziato del Salvatore, il quale per mezzo della Croce ha distrutto in se stesso l’inimicizia; e, al tempo stesso, sarà la più dolce consolazione per il cuore materno della Vergine Madre, che si è consumato sul Figlio Unigenito, e implora di non essere diviso a causa delle nostre divisioni. Così la Pasqua del Signore ci vedrà realmente nuove creature, impegnate a donare unità e pace lì dove la Provvidenza ci ha posti, “perché tutti siano una cosa sola” (Gv 17,20). “Beati gli operatori di pace, perché saranno chiamati figli di Dio” (Mt 5,9).
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